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«Mancanza di pari opportunità tra le parti, copertura mediatica a senso unico e limitazioni delle libertà fondamentali». Secondo l’Osce, l’organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, sono queste le caratteristiche più importanti del referendum costituzionale che si è svolto in Turchia domenica 16 aprile.

Secondo quanto sostenuto dal Consiglio Elettorale Supremo turco, il Sì ha vinto con il 51,4% dei voti, permettendo quindi al presidente Recep Tayyip Erdogan di trasformare il paese in una repubblica presidenziale, aumentando quindi i poteri del presidente.

Il Partito Popolare Repubblicano, Chp, e il Partito Democratico dei Popoli, Hdp, il più importante partito filocurdo, non hanno però riconosciuto l’esito del voto, chiedendo che sia ricontato il 60% delle schede e che vengano annullate quelle senza il timbro di convalida del seggio, che secondo stime che circolano sui giornali turchi sono circa 1,5 milioni e che il Consiglio ha invece deciso di includere tra i voti validi.

Tuttavia, al di là del risultati definitivi, il voto referendario fornisce una certezza, che è quella di un Paese diviso in due e spaccato su più livelli. Con un’affluenza vicina all’85% e un No che ha vinto nelle tre principali città, Istanbul, Ankara e Izmir, la sensazione è che la frattura sia difficilmente ricomponibile.

Secondo Carlo Pallard, storico e redattore di East Journal, «le due metà del Paese hanno un peso molto differente tra di loro. Da una parte ci sono le tre principali città turche e anche alcune altre molto importanti sulla costa, come Antaliya e Mersin e altre, per cui Erdogan esce vincitore da questo voto, almeno stando a quanto sostenuto dalla commissione elettorale, ma anche decisamente ridimensionato. Non solo il presidente ha vinto con una maggioranza estremamente risicata, ma anche con una maggioranza fortemente contestata».

Il risultato va considerato definitivo o potrebbe ancora cambiare?

«È difficile che Erdogan e il suo governo possano fare un passo indietro. Certamente, però, l’opposizione non ha accettato il risultato, e l’Osce con il suo rapporto sembra dare buone ragioni alle sue motivazioni. Sicuramente questo esito così incerto avrà un peso molto forte sulla situazione turca anche da un punto di visto simbolico: l’immagine emersa dal fallito colpo di stato del 15 luglio, con un Erdogan quasi invincibile che si ergeva supportato dalla grande maggioranza del suo popolo, svanisce davanti a questo Paese diviso e questa opposizione che esce sconfitta ma galvanizzata da un risultato elettorale che sembra rappresentare la metà della popolazione. Le parti produttive della Turchia sono contro di lui e allo stesso modo le organizzazioni internazionali si sono espresse in modo critico. Ecco, il vero risultato è quello di una figura che a livello simbolica esce un po’ ridimensionata».

A questo punto bisogna temere un’escalation di tensione?

«Non so se si possa parlare già adesso di possibilità di rivolta o di un passaggio alle maniere forti, però sicuramente la situazione è più difficile di quanto non fosse prima dal punto di vista della tensione e della stabilità del Paese. Questo voto contestato rende la situazione potenzialmente esplosiva. Un risultato più netto forse sarebbe stato migliore, almeno per la sicurezza. Il fatto che il risultato sia contestato sin dalle prime ore dopo il voto rende lo scenario ancora peggiore».

A questo punto il percorso di adesione della Turchia all’Unione europea si può considerare definitivamente interrotto?

«A mio avviso, sia nella pratica sia ormai anche nella visione politica di Erdogan, questa possibilità era tramontata da tempo. Per varie ragioni di opportunità si manteneva in vita la finzione di questo processo di adesione, che era già stato sospeso in passato, ma ora con questo voto le prospettive si allontanano, perché esistono anche dei criteri formali per l’ingresso nell’Unione. Questo nuovo sistema è sostanzialmente privo di pesi e contrappesi e fa tramontare qualsiasi possibilità di andare avanti con eventuali negoziati; oltretutto, subito dopo il voto Erdogan ha parlato di un nuovo referendum sulla pena di morte, e questa può essere una pietra tombale a qualsiasi discorso di integrazione, perché la questione della pena di morte è un aspetto retorico fortemente antieuropeo. Per capirci, quando Erdogan tira in ballo la pena di morte sta dicendo che, siccome gli Stati Uniti ce l’hanno, così come la Cina, allora anche la Turchia ha il diritto di reintrodurla, e il parere dell’Europa non è rilevante perché non lo sono più, agli occhi di Ankara, i criteri per l’ingresso nell’Unione».

Che cosa ci si deve attendere invece a livello internazionale? Si va verso cambiamenti significativi a livello di posizioni e soprattutto di azioni nella regione mediorientale?

«È difficile pensare a come agirà Erdogan sul piano internazionale, perché il voto non cambia la posizione della Turchia che è difficilissima, non cambia i suoi rapporti né con la Russia di Putin né con gli Stati Uniti, sempre più ambigui, e non cambia le difficoltà del Paese in Siria. L’unica differenza può essere che Erdogan si vedrà come più autorizzato ad agire in base alle proprie intenzioni del momento, però per un leader così populista il fatto di reggersi su un consenso popolare non solo così risicato in termini di maggioranza, ma con il sospetto che sia falsato, è qualcosa di abbastanza grave da accettare e avrà delle conseguenze anche sul piano internazionale. L’Osce e la stessa Unione europea si sono espresse su questo referendum in un modo che, per il linguaggio e i modi diplomatici abituali, è decisamente pesante».

Immagine: via Pixabay

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