Con questo lavoro si vuole dare spazio e voce a chi opera nel contesto dei salvataggi in mare, portando lo sguardo della società civile in contesti dove è difficile arrivare. Raccontare cosa accade oggi nel Mediterraneo ci permette di avere maggior elementi di comprensione di come evolve la frontiera e il fenomeno migratorio, come Mediterranean Hope (progetto della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia) raccontiamo la fase finale, l’arrivo, l’approdo dei migranti al molo Favaloro di Lampedusa, dove svogliamo attività di primissima assistenza ma non riusciamo ad allungare lo sguardo oltre il mare.
L’intervista a Giacomo Zandonini, giornalista e fotoreporter freelance, che per dodici giorni si è trovato a bordo della Golfo Azzuro in missione con la Ong Proactiva Open Arms ci è utile per compendere quello che succede oltre l’orizzonte di Lampedusa. Il dialogo con Giacomo Zandonini si contrappone allora al giornalismo del mistero e, senza lasciare nulla al caso, ci illustra chiaramente come avvengono e come sono coordinati i soccorsi in mare.
Quando nasce la missione umanitaria di Proactiva, quante persone lavorano sulla nave e che tipo di background hanno?
«La missione umanitaria di questa Ong inizia nel settembre 2015, a Lesbos, dove la Proactiva svolgeva un soccorso differente, con altre imbarcazioni. Oggi invece con la Golfo Azzurro, un ex peschereccio che ha una lunghezza di 40 metri, presta servizio nel Mediterraneo Centrale, nelle acque tra l’Italia e la Libia.
Il team a bordo è composto da 18 persone: il capitano, l’ufficiale in seconda, il macchinista, il medico, l’infermiera, alcuni soccorritori professionali, due giornalisti e i volontari. Tutti sono a bordo come volontari, e tranne il coordinatore e il capo visione nessuno percepisce un contributo economico. Tutti nella vita hanno altri impegni, fanno gli skipper o gli impiegati, c’è chi fa il commerciante e chi il pompiere. Alcuni sono a bordo per dare un esempio ai propri figli, per costruire loro un futuro mentre altri hanno alle spalle ha una storia di attivismo e di volontariato. L’organizzazione, poi, per più del 90% si finanzia grazie a raccolte fondi e donazioni di privati. Chiaramente è molto complicato gestire queste costose operazioni di recupero e salvataggio in mare, portare una barca che costa ogni giorno migliaia di euro. Però Proactiva come tutti, ha una grande determinazione nel continuare questo lavoro, per l’importanza di farlo, di essere in quest’area di mare pericolosissima, di comunicare e raccontare quello che accade».
Che tipo di missioni porta avanti Proactiva insieme ad altre ONG che operano nel Mediterraneo? Come vengono coordinate queste operazioni di salvataggio e dove operano?
«Al momento sono 7 le navi di ONG presenti nel Mediterraneo Centrale. Ovviamente non si trovano tutte nel medesimo posto; c’è sempre chi sta tornando in Sicilia e qualcun altro che sta raggiungendo la zona Sar (di ricerca e soccorso) ; le navi più piccole invece rimangono sul posto perché non hanno capacità di tenere a bordo molte persone e quindi di fatto il loro compito è supportare gli altri, cercando di distribuire giubbotti salvagente, per poi aiutare nei trasbordi le barche più grandi.
Le operazioni di ricerca e soccorso si sviluppano in vari modi. Da un lato v’è la ricerca visiva fatta con i binocoli dal ponte di comando, da cui si riescono a vedere imbarcazioni fino a 5 miglia; dall’altro le imbarcazioni sono localizzate attraverso l’intercettazione di macchie di calore sui radar di bordo. Inoltre, molti altri salvataggi hanno inizio dopo che un SOS è inviato tramite cellulari satellitari dai migranti stessi, alla Guardia costiera italiana. In questo caso (come tutti gli altri del resto), il coordinamento di Roma indica chi e dove intervenire, a seconda della vicinanza dal luogo localizzato; chi arriva sul posto fa poi una prima valutazione di massima sulle condizioni e sul numero di persone».
La scorsa settimana è arrivato a Lampedusa l’unico superstite di un naufragio, puoi dirci qualcosa al riguardo e in generale sulla situazione in mare oggi?
«Nel naufragio della scorsa settimana, abbiamo localizzato solo la punta di un gommone, quei gommoni che vengono solitamente caricati con 120, 130, 140 persone, e un’altra organizzazione Jugend Rettet ne ha visto un altro a distanza di circa un’ora. Questi due gommoni erano quasi interamente affondati, avevano lunghezza di 15 metri e l’unica parte che emergeva era la punta».
Pensi che i due gommoni potrebbero essere stati soccorsi precedentemente da altre imbarcazioni e quindi lasciati in mare vuoti oppure nessuno è arrivato in tempo e quindi le persone non erano state tratte in salvo?
«Generalmente quando le imbarcazioni vengono soccorse, gli equipaggi lasciano un marchio con la scritta Rescue o un colore o un numero sullo scafo, inoltre i gommoni vengono tagliati lungo tutto il lato con un coltello. Questo è un modo per identificare un gommone da cui è stato fatto un salvataggio. Degli stessi due naufragi, l’OIM, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, ha dichiarato che le persone sono state recuperate e riportate in Libia, e se così fosse saranno le stesse che nella migliore delle ipotesi riproveranno a fare la traversata».
Ricollegandoci agli attacchi che ci sono stati nelle ultime settimane, abbiamo notato un ribaltamento delle responsabilità dove chi salva le persone in mare è stato criminalizzato e vorremmo chiederti qual è il ruolo dei media, sia nel portare avanti questi attacchi sia dal tuo punto di vista di giornalista?
«Una cosa è certa, tutti faticano a capire il perché dei recenti attacchi alle ONG e soprattutto si fatica a capire come mai i media abbiano dato una così forte risonanza ad accuse non giustificate da prove. Infatti qualcosa di fondamentale sembra sfuggire. Basta venire qui a bordo per capire come lavorano e sapere che non c’è nessuna complicità coi trafficanti. Sono pochissimi i giornalisti italiani che sono venuti a bordo delle navi umanitarie per raccontare quello che fanno, nonostante poi le persone arrivino in Italia. Questo è un segnale molto forte, perché esprime il disinteresse e l’assuefazione dei media italiani; non voglio generalizzare ma il tipo di giornalismo che è ruotato intorno a questo tema finora non ha approfondito la questione, ma si è limitato ad appoggiare un ribaltamento delle responsabilità, criminalizzando di fatto chi salva le vite in mare; si tratta di un tipo di giornalismo che è creato e vuole creare mistero. Lo scopo di questi attacchi sembra quello da un lato di confondere e influenzare l'opinione pubblica e dall’altro di screditare le missioni di salvataggio, deresponsabilizzando così la coscienza collettiva della nostra società. È dunque importantissimo, oltre al lavoro di soccorso, raccontare quello che accade e come accade, in questo mare d’accordi».