Le iniziative del neo-presidente degli Usa Donald Trump nei confronti soprattutto dei migranti e dei musulmani, e le conseguenti manifestazioni di protesta, stanno portando molti a chiedersi a quale cultura faccia riferimento questo modo di governare, a quali eredità storiche faccia riferimento. Ne parliamo con Debora Spini, che insegna Teoria politica alla Syracuse University in Florence e alla New York University in Florence.
«A mio avviso non c’è nulla nelle parole di Trump che sia riconducibile all’eredità del puritanesimo. Piuttosto vi si potrebbe trovare l’eco, molto al ribasso, di alcune idee di Carl Schmitt [filosofo e giurista tedesco, 1888-1985, ndr] e di un certo sovranismo inteso come riappropriazione della sovranità nazionale da parte del popolo. La visione di Trump presenta essenzialmente una visione nostalgica e di ritorno al passato che ne spiega il successo. La forza di Trump sta proprio nel guardare indietro, mentre l’impostazione di Obama era rivolta a costruire qualcosa di nuovo, prendendo atto che il mondo è cambiato e bisogna potercisi collocare. Trump dice, all’opposto, che nel mondo globalizzato la soluzione sta nel tornare al passato, alla chiusura totale allo straniero: in una fase di incertezza e di confusione, questi slogan hanno successo, sono “confortanti”, soprattutto per quei ceti sociali che hanno pagato più di altri il peso della globalizzazione. Trump fa identificare di nuovo un popolo con una terra, opponendosi a una delle più importanti scommesse della politica degli ultimi tempi (la miglior visione politica europeista, per esempio) che consisteva nel ragionare in termini di spazi anziché di territori. Tutti i recenti populismi, ognuno a modo suo, ci riportano a una visione per cui chi è dentro, è dentro; chi fuori, fuori Ora, è ben vero che qualunque visione politica non può rinunciare a impostare una delimitazione territoriale, a darsi un assetto: ma questo deve essere basato su dei valori, il più possibile condivisi e non su slogan, oltretutto irrealizzabili, come il famoso muro al confine con il Messico, che non riuscirà a fermare il passaggio dei disperati. E anche l’idea di riportare le aziende americane all’interno degli Usa non potrà funzionare, le regole del mercato e la dipendenza dalle fonti energetiche non sono aggirabili nei fatti».
A questo proposito, che cosa possiamo dire sull’idea attuale di «frontiera»? Come è cambiato questo concetto nel tempo?
«L’idea di frontiera dipende da molti fattori: per tanti anni si è espressa nella visione di una “espansione progressista”, che significava non solo la difesa di uno spazio, ma anche la capacità di inventarsi un “altrove”, andando a cercare di realizzare da un altra parte ciò che è impossibile realizzare dove si è: certo questa concezione è strettamente legata alla mentalità coloniale. Ora oggi questo non accade più: come aveva ben detto il sociologo Ulrich Beck (1944-2015), nel mondo globalizzato, se le cose qui non vanno bene, non esiste più un altrove dove sperare di farle andare meglio: bisogna prendere atto che dobbiamo imporci una coscienza del limite (alla produzione, alla crescita, ai consumi, all’impiego dell’energia), che però è difficile da acquisire, anche dolorosa, salvo, come dicevamo, rifarsi a una evocazione nostalgica, come fa Trump, di un’epoca passata».