La guerra civile in Yemen è uno tra i conflitti meno rappresentati e più silenziosi del nostro tempo. Tuttavia, nonostante l’assenza dalle cronache, gli scontri non accennano a diminuire in numero e intensità. Il fine settimana appena trascorso è stato caratterizzato da nuovi attacchi contro strutture civili nei pressi di Sana’a, la capitale del Paese. In particolare, un bombardamento compiuto dalla coalizione araba a guida saudita ha colpito una scuola appena fuori dalla città.
Secondo l’agenzia stampa Saba, in mano ai ribelli Houthi, che guardano all’Iran come alleato regionale e che controllano il sud del Paese, quattro missili hanno colpito ieri la scuola, nella quale erano presenti studenti e insegnanti. In una guerra segnata dalla difficoltà di ottenere e diffondere informazioni imparziali, rimangono poche certezze: tra queste le oltre 70 vittime causate dagli scontri nelle ultime 48 ore, riportate dal personale medico sul territorio e dall’agenzia France-Presse, e le circa 10.000 vittime dal marzo 2015 a oggi, in un Paese che era già il più povero del Medio oriente e che da allora è precipitato in una condizione sempre peggiore.
Mentre dai Paesi occidentali, alleati dell’Arabia Saudita, arrivano generiche condanne nei confronti dei gesti più eclatanti, l’Egitto ha deciso di entrare più attivamente nel conflitto, con una partecipazione militare ancora più forte e a tempo indeterminato.
Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, «è una guerra del tutto dimenticata».
Questo però non vuol dire che la guerra non ci sia più o che sia scesa d’intensità. C’è qualche cambiamento in corso?
«Se c’è stata qualche trasformazione, purtroppo c’è stata solo in peggio, soprattutto a causa del silenzio dei mezzi d’informazione. È quell’ombra a favorire il compimento di crimini di guerra che rimangono impuniti. A metà gennaio le Nazioni Unite hanno comunicato che sono oltre 10.000 i civili uccisi e oltre 40.000 i feriti in meno di due anni, e le cifre probabilmente sono persino inferiori al dato effettivo. Insomma, la situazione è sicuramente peggiorata, i negoziati di pace quando si svolgono si svolgono in maniera decisamente improduttiva e chi segue su Twitter gli account degli attivisti yemeniti si rende conto che quasi ogni sera, intorno a mezzanotte, arrivano puntuali i bombardamenti sulle città yemenite da parte dell’Arabia Saudita».
Nemmeno le missioni delle Nazioni Unite danno minimi risultati. Ma a chi conviene far continuare questa guerra?
«Sicuramente serve a tutti quei produttori di armi che ogni volta, come degli sciacalli, planano sui teatri di conflitto. Tra questi produttori c’è anche l’Italia con i carichi di migliaia di tonnellate di bombe partiti dalla filiale sarda di una fabbrica tedesca, la Rwm. Poi c’è da dire che questa guerra viene vista come un “conflitto di serie B” rispetto per esempio a quello siriano che interessa tutto il mondo, al quale viene data dignità di conflitto internazionale, mentre quello dello Yemen viene visto come un conflitto locale. C’è poi una terza ragione: a guidare la coalizione militare contro gli Houthi, questo gruppo armato sciita, è l’Arabia Saudita, che è il nostro “alleato di ferro” nella regione, considerato moderato e filo-occidentale».
Come si può considerare tale?
«Infatti non si può: è un Paese che decapita in piazza più di 150 persone all’anno, che frusta i blogger, che non fa guidare da sole le donne e che riduce in silenzio tutto il movimento per i diritti umani. Il fatto però è che dall’altra parte c’è l’Iran, che nonostante sia entrato di nuovo nella normalità dei rapporti internazionali con la chiusura dei vari dossier e delle varie questioni in sospeso, nucleare e altro, è sempre visto nella zona come il fumo negli occhi, quindi la narrazione è quella del nostro alleato che combatte contro la minaccia iraniana».
Dallo Yemen non si è generato un grande flusso di profughi dall’Europa. Possiamo considerarlo un Paese privo di vie di fuga?
«Purtroppo sì. Due dei Paesi in cui c’è la peggiore situazione dei diritti umani, non paragonabile tra di loro, cioè lo Yemen e il Bahrein, sono situati in modo che non sia possibile fuggire se non in direzioni opposte a quello del flusso verso la frontiera marittima europea. Dallo Yemen, che è in fondo alla penisola araba, non puoi andare via se non attraverso il golfo di Aden, andando verso luoghi come il Gibuti e la Somalia che non sono certamente luoghi di accoglienza, per cui da lì nessuno si avventura. Allo stesso modo, il Bahrein è un’isola collegata da un ponte artificiale all’Arabia Saudita, quindi si passa dalla padella alla brace perché non ci sono altre strade.
Forse sarà anche per questo che interessa di meno qua in Italia: non si fanno barricate contro i profughi yemeniti in quanto non ci sono le ragioni per farle, cioè non ci sono le persone».
Quali sono le realtà internazionali che resistono in Yemen?
«Ci sono degli organismi umanitari, come Medici senza frontiere, a cui peraltro sono stati bombardati in Yemen vari ospedali, poi c’è il programma alimentare mondiale e ci sono altre associazioni che portano aiuti. Il problema però è che sono bombardati dall’aria e sono pure bloccati a terra dai vari posti di blocco dei gruppi armati, degli Houthi, e quindi fanno quello che possono fare in un contesto già povero e che oggi vede l’80% della popolazione completamente dipendente da aiuti umanitari, che oltretutto arrivano a singhiozzo».