L’inefficacia dei Cie
10 gennaio 2017
Si è riacceso il dibattito sui Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Il fenomeno dei flussi migratori è strutturale e va affrontato in modo serio e non solo ai fini elettorali
La proposta del ministro degli Interni, Marco Minniti, di aprire un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) in ogni regione d’Italia, ha acceso il dibattito pubblico. Ma che cosa sono i Cie e come funzionano? Lo chiediamo a Giulia Gori, responsabile del «coordinamento accoglienza» di Mediterranean Hope (Mh) progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) per l’accoglienza e l’accompagnamento di rifugiati e richiedenti asilo.
«I Cie furono istituiti nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano con l’intento di trattenere gli stranieri senza permesso di soggiorno, che devono essere rimandati nei paese di origine. Nel 2016 sono stati rimpatriati solo circa 5000 immigranti su quasi 40.000 irregolari, dunque l’efficacia dei Cie – al momento ve ne sono cinque funzionanti (Brindisi, Caltanissetta, Roma, Bari e Torino) – è tutta da dimostrare».
Quali sono i limiti e le maggiori criticità di queste strutture?
«Sicuramente il grande limite è lo stato giuridico di queste strutture. Con la creazione di questi centri è stato inaugurato in Italia il sistema della detenzione amministrativa sottoponendo a regime di privazione della libertà persone che hanno violato una disposizione amministrativa (mancato possesso del permesso di soggiorno). Anche la durata del trattenimento in un Cie è problematica: inizialmente di 30 giorni è via via aumentata fino a 18 mesi (oggi riportato a 12 mesi) con grandi proteste delle maggiori associazioni in difesa del diritto perché si trattava di una limitazione della libertà personale in strutture al limite del decoro, dove non vengono garantiti la dignità umana, l’accesso alle cure e si sono verificate gravi violazioni dei diritti umani».
La proposta di Minniti rilancia il vecchio approccio securitario all’immigrazione. Qual è la strada da percorrere per affrontare il fenomeno migratorio?
«Aumentare il numero di Cie, e conseguentemente il numero di persone trattenute, si è dimostrato più volte inefficace in quanto non è automatico che il trattenimento corrisponda a un rimpatrio: da un lato, le procedure di espulsione sono complicate, costose e occorrono fondi specifici che non ci sono. Dall’altro, i rimpatri necessitano di accordi siglati con i diversi paesi di origine degli stranieri che o non esistono o sono problematici. Ad esempio, l’estate scorsa l’Italia ha firmato un accordo di rimpatrio con il Sudan che è un paese che non garantisce la tutela dei diritti umani. Addirittura l’Europa sta firmando un accordo con l’Afghanistan. Parte del problema verrebbe risolto se l’Italia e l’Europa non si chiudessero ai flussi migratori, se si riuscisse a vedere la migrazione come una risorsa e si ripensassero le politiche dei permessi di soggiorno e dei visti di ingresso per rendere più facile la ricerca di lavoro e l’ingresso in Europa».
Purtroppo però l’atteggiamento verso l’immigrazione è tutt’altro che aperto: crescono i sentimenti razzisti, xenofobi anche in coloro che si sono sempre definiti accoglienti. In che modo va gestita la mediazione con gli italiani che sentono minacciati i propri diritti e le proprie certezze?
«Sicuramente mediante una politica non basata sull’emergenza che legga il fenomeno dei flussi migratori come strutturale, da affrontare in modo serio e non solo ai fini elettorali. Aiuterebbe anche una conoscenza reale del fenomeno: se consideriamo il numero di stranieri presenti in Italia, in proporzione agli italiani, non si può parlare di invasione, sono cifre contenute soprattutto se confrontate con il numero di stranieri accolti in altri paesi europei. I dati Istat inoltre confermano che la manodopera straniera è necessaria, anche solo per pagare le pensioni a migliaia di italiani. Occorre una riflessione sul fenomeno meno ideologica e più oggettiva: le ricerche dimostrano che gli stranieri che lavorano regolarmente in Italia apportano ricchezza al paese».
Come si disinnesca la paura verso l’altro, dando vita a una cultura dell’accoglienza?
«È importante che quotidianamente nelle scuole, a lavoro, nei luoghi di socializzazione ci si possa veramente confrontare con lo straniero che non è quello raccontato dal politico di turno o dalla televisione. Quando ci si guarda in faccia l’un l’altro, ci si parla, quando si ha la possibilità di raccontare le proprie storie, con tutte le differenze di cui si è portatori e portatrici, ci si rende conto che forse ci sono più punti di vicinanza di quanti immaginavamo: questo facilita l’integrazione. La conoscenza vera dell’altro e dell’altra aiuterà a dar vita ad una cultura dell’accoglienza. È quanto cerchiamo di fare con il lavoro della Federazione delle chiese evangeliche, attraverso il progetto Mediterranean Hope, i corridoi umanitari, l’accompagnamento all’inclusione sociale delle persone straniere, i corsi di italiano».