Dato alle stampe a metà luglio, «Radici piantate tra due continenti». L’emigrazione valdese negli Stati Uniti d’America nasce dal lungo studio condotto da Luca Pilone, “sul campo” e negli archivi, gettando luce su un fenomeno in parte già conosciuto e studiato, in parte ancora da scoprire. Soprattutto per quanto riguarda alcune comunità degli Stati Uniti, la cui storia è profondamente diversa da quella delle comunità del sud America.
Come ci racconta Pilone, infatti, «passa almeno una quindicina d’anni tra l’emigrazione nel sud America e quella negli Stati Uniti. Inoltre la prima è osteggiata, la seconda no, anche se entrambe coinvolgono gruppi familiari e a catena si estendono al villaggio di provenienza o a quelli limitrofi, nell’ambito delle valli valdesi. Un’altra differenza è che chi arriva nel nord America sbarca a New York, quindi in una grande città, molti si disperdono, tant’è che la comunità valdese di New York (una delle più recenti, nata negli anni ’10 del ’900) nasce in un certo senso come reazione al rischio di “perdersi” nella metropoli dalle mille luci, dimenticando le proprie radici a causa della facilità di guadagno economico».
Diversa è anche la visione dell’identità valdese, che si accompagna a un diverso processo di assimilazione: più lento nell’America Latina, pressoché totale negli Usa.
«La questione dell’identità si gioca in modo diverso: in Sud America esiste ancora una chiesa strutturata, nel nord l’unica comunità valdese afferente alla chiesa italiana era quella di New York, che ha chiuso i battenti negli anni ’90 del Novecento. Tutte le altre nell’arco di pochi anni si sono lasciate assimilare dalle realtà più affini, come quella presbiteriana, non per rinnegare le proprie origini, ma per motivi pratici, per il sostegno offerto da questa chiesa.
Monett e Valdese durano quindi pochissimo come chiese valdesi indipendenti, ma ancora oggi, pur chiamandosi presbiteriane, mantengono l’aggettivo valdese. Inoltre promuovono varie attività che valorizzano l’identità originaria: a Valdese oltre al museo c’è un Festival annuale, molto “americano” dal nostro punto di vista, c’è la musica country ma c’è anche un culto con una predicazione molto forte legata alla storia. In Missouri è nata da poco la Waldensian Foundation, ente semipubblico che ha depositato parte degli archivi in una delle università più importanti dello Stato e porta avanti diversi progetti di ricerca anche in collaborazione con il Sud America e l’Italia.
L’identità è quindi giocata in maniera diversa, ma da alcuni anni si sta cercando di “fare ponte” fra queste tre realtà (Usa, America del Sud e Italia) che per un po’ hanno camminato parallele, poi si sono perse di vista e ora si stanno riavvicinando».
Quale evoluzione si può ipotizzare negli studi su questa materia?
«Sta crescendo la consapevolezza che se non si raccolgono adesso i documenti nelle famiglie, gli studiosi futuri rischiano di doversi basare sull’oralità o su una produzione datata.
Basti pensare che uno dei pochi libri onnicomprensivi sulla storia dei valdesi negli Usa è The Waldenses in the New World di George B. Watts, del 1941. Non c’è uno studio americano su questo fenomeno nel suo complesso, ma solo su alcune realtà locali, come il Texas, e piuttosto sotto il profilo dell’emigrazione piemontese. Riscoprire l’emigrazione dei valdesi nella loro specificità religiosa e non solo regionale, cioè l’apporto di italiani non cattolici al contesto americano, può fare emergere elementi interessanti anche per studi antropologici e sociologici».
Venendo all’immigrazione nelle grandi città, come New York e Chicago, che cosa la caratterizza?
«Chicago è il caso più curioso: qui i valdesi delle chiese storiche delle Valli sono una minoranza, rispetto agli evangelici provenienti da altre zone d’Italia, e gioca un ruolo importante la differenza tra emigranti di prima e di seconda generazione, gli uni provenienti dal nord Italia (Liguria e Toscana innanzitutto, poi Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia), gli altri dal Meridione (Puglia, Campania). C’è una conflittualità enorme fra questi due gruppi, e nelle comunità delle origini, peraltro in forte crescita, i primi pastori devono gestire due entità distinte, che non si parlano.
Per superare questo problema e rafforzare un’identità comune, i valdesi di Chicago scelgono di usare l’italiano, mentre nelle altre comunità (Missouri, North Carolina, New York) per molto tempo si usa il francese, con tutti i problemi derivanti dall’uso di una lingua che pian piano viene dimenticata…»
Poi c’è l’emigrazione di ritorno: italiani che negli Stati Uniti diventano protestanti e fondano delle comunità nei loro paesi d’origine...
«Il fenomeno è abbastanza studiato, ma non tutti sanno che alcune comunità, esistenti ancora oggi, soprattutto nel centro e sud Italia, sono state fondate da emigranti di ritorno. Animati da una forte passione, portavano con sé un bagaglio di libertà religiosa, un’immagine positiva del protestantesimo, poco conosciuto o fortemente osteggiato nei loro paesi d’origine. Talvolta le comunità si disperdevano, altre volte crescevano, soprattutto perché queste persone (uomini e donne) a un certo punto si facevano da parte, lasciavano il posto al pastore o ad altri evangelisti. Non c’è stato un “culto della personalità”, una personalizzazione della chiesa, e questo ha permesso alle comunità di proseguire oltre la vita del loro fondatore».