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La Riforma è qualcosa di più grande e duraturo del 1517

Ancora una riflessione sul Cinquecentenario, a partire dal rapporto della chiesa confessante con il credente

Nel riflettere sul problema della chiesa confessante e del suo rapporto con il credente (Riforma n. 38, p. 15), chiudevamo il nostro articolo con l’espressione: «Non è la chiesa confessante che fa dei credenti confessanti, ma sono i credenti confessanti che danno vita a una chiesa confessante». Su questo pensiero, forse più interrogativo che affermativo, siamo tornati a riflettere successivamente, associando la situazione ecclesiastica a quello che ormai da mesi è il tema del discorso fra noi: la celebrazione della Riforma luterana del 1517.

Andiamo convincendoci sempre più che per quei credenti, che siamo soliti chiamare Riformatori, il problema non fu la riforma della Chiesa. Certo il tema della riforma era sentito allora da tutti i credenti sinceri e l’urgenza di mettere ordine nella vita di una chiesa ridotta ormai a bottega, a centrale d’affari, era evidente a tutti, ed è quello che fecero i vescovi a Trento con la consulenza dei gesuiti, ma il percorso dei nostri personaggi partendo da Lutero fu tutt’altro.

A costituire questione fondamentale non era per loro la chiesa ma la fede e la fede è un’esperienza che non riguarda la chiesa ma il credente e Cristo. La chiesa fa certo riferimento alla fede cristiana nella sua confessione di fede, fornisce al credente il quadro di pensiero per esprimere la sua fede. Come una nutrice ti insegna a camminare, come una maestra ti insegna a parlare, ma dove andare e che cosa dire lo insegna solo Cristo.

Nel cristianesimo medievale può dirsi credente chi vive nella chiesa, le si sottomette e partecipando ai sacramenti fruisce della grazia che essa amministra; per i Poveri di Lione questo non bastava, volevano seguire Gesù come gli apostoli e neppure bastava per i nostri «Riformatori», che volevano trovare la chiave della loro esistenza non nella pratica religiosa (o negli esercizi spirituali) ma nell’incontro con Dio.

Per quella generazione infatti il problema fondamentale era la salvezza dalla morte eterna, l’essere lontani da Dio o vicini a lui, in inferno o in cielo. Tutt’altro che religiosità superstiziosa, banale, come la legge l’agnostico del giorno d’oggi: era il drammatico interrogativo sul senso dell’esistenza che ha tormentato il monaco Lutero per anni, risoltosi quando, illuminato dallo Spirito, scoprì che «il giusto vive per fede» (Romani 1, 17).

In questo momento si realizza quello che ricordiamo come Riforma: la nascita della fede in ottica non medievale ma moderna (che ricordiamo non perché moderna, ma perché è fede autentica). Questa autenticità dell’esistenza, questa «giustizia», non riguardava né il papa né la chiesa, e neppure la teologia originalissima che egli insegnava da anni, ma riguardava lui solo come persona perché, come dirà Kierkegaard, è la fede che qualifica la creatura come singolo davanti a Dio.

 Quello che Lutero non sapeva è che questa esperienza metteva in forse la cristianità europea, che da Costantino gestiva la religione cristiana: lo scoprirà progressivamente negli scontri e nei dibattiti e finalmente a Worms, dove è convocato come frate ribelle. Allora diventerà chiaro alla sua coscienza che essere «giustificato per fede» significa vivere della libertà dell’Evangelo. A Worms Lutero, credente spiritualmente risorto, è un cristiano ecclesiasticamente morto, il suo destino è quello di Jan Hus e di Savonarola: il rogo; solo le circostanze, cioè la Riforma nella sua dimensione di fenomeno storico, fecero sì che questo non fosse il suo destino.

Si possono fare a questo punto due riflessioni: di natura storica e teologica. Qualora Lutero fosse salito sul rogo, il movimento da lui avviato si sarebbe spento o sarebbe proseguito? Non si fa la storia con i «se», ma si può affermare che la Riforma non sarebbe stata soffocata: l’Europa del Cinquecento non era più quella del Quattrocento, la svolta della cristianità non era un optional ma un destino.

Essendo Zwingli e gli svizzeri su posizioni non meno radicali, si sarebbero realizzate verosimilmente diverse forme di protestantesimo; uno nell’Impero e nelle monarchie nordiche, luterano di tipo anglicano (quello che ha accolto il papa a Lund) e un altro nell’area del Reno, di carattere urbano. Legare la Riforma al 1517, come si sta facendo, significa ridurla a fenomeno personale: il frate che chiede riforme e dà la Bibbia al popolo (lettura di Bergoglio). Il fenomeno che chiamiamo «protestantesimo» in realtà è quello della seconda generazione, quello calvinista, e meriterebbe ricordarlo con maggior insistenza.

 

L’interrogativo teologico invece è molto più importante e si connette con l’esperienza iniziale di Lutero, con il suo passare dalla sottomissione fiduciosa alla chiesa, alla fede nella giustizia salvifica di Dio.

La fede è esperienza personale che avviene quando l’incontro con la parola evangelica determina la vita; nel caso di Lutero quando la parola biblica risponde al suo tormento personale: essere condannato perché la creatura non può soddisfare la giustizia divina e meritare la grazia.

 Questo non è certo il problema della nostra generazione, che non conosce né inferno né paradiso, per cui la morte è puro fatto biologico; di conseguenza la giustificazione per grazia, che sollevò allora le coscienze degli europei e, come disse Lutero, «squarciò le tenebre dell’anima aprendo le porte del cielo…», è oggi dottrina pressoché muta, un carbone spento. Quale è allora il pensiero biblico, il versetto che squarcia le tenebre delle nostre coscienze? Individuarlo significherebbe trovare la fede per la nostra generazione, essere cioè una chiesa confessante di credenti confessanti.

By Georg Osterwald (1803–1884) - Bibliothèque publique et universitaire de Neuchâtel - BPUN, Public Domain, Link