Nella giornata di domenica si sono tenute le elezioni parlamentari in Montenegro, nel centro dei Balcani occidentali. Il voto, che serviva per rinnovare gli 81 seggi che compongono l’unica Camera del Paese, ha visto la maggioranza relativa andare al Dps, il Partito Democratico dei Socialisti, al governo quasi ininterrottamente dal 1991 e guidato da sempre dal primo ministro uscente Milo Đukanović, che negli anni ha spostato le proprie posizioni politiche sempre più verso la Nato e posizioni filo-occidentali. Đukanović è stato quattro volte primo ministro, una volta presidente della Repubblica e per due volte si è ritirato dalla politica per poi ritornarci pochi mesi dopo.
I dati sono ancora parziali, ma secondo le proiezioni più recenti il Dps avrebbe ottenuto il 41% dei voti, pari a 36 seggi, un esito contestato dalle principali forze di opposizione, che hanno denunciato brogli. «Il Fronte Democratico, cioè il principale partito dell’opposizione – racconta il giornalista Daniele Bellocchio, che ha seguito le elezioni da Podgorica, la capitale del Paese – sta attendendo gli esiti della valutazione della commissione elettorale, perché spera che vengano denunciati e certificati alcuni brogli, alcune manipolazioni, che gli permetterebbero di guadagnare alcuni punti percentuali che ribalterebbero la situazione».
Se confermata, quella di Đukanović sarebbe la vittoria più risicata da quando guida il Paese, al punto che, prosegue Bellocchio, «il numero di seggi parlamentari che il Dps ha conquistato non garantiscono la maggioranza in Parlamento, e quindi adesso ci sarà un vero testa a testa tra la maggioranza e l’opposizione per accaparrarsi le minoranze etniche: il tutto verrà deciso dai partiti di minoranza, cioè il Partito Socialdemocratico e le minoranze bosniaca, albanese e croata».
Le minoranze, in effetti, hanno giocato un ruolo centrale nella campagna elettorale, al di là del consenso ottenuto nelle urne. «È stata una campagna elettorale – racconta Daniele Bellocchio – nella quale le politiche e i discorsi si sono basati molto sul fattore etnico». In particolare, da un lato il Fronte Democratico ha mantenuto il suo ruolo di partito di riferimento della popolazione serba, che rappresenta circa il 30-35% della popolazione, «al punto che – ricorda ancora Bellocchio – ai loro comizi ho visto spesso sventolare le bandiere della Serbia, così come, in alcune occasioni, si sono potute vedere in Piazza Indipendenza a Podgorica anche le bandiere dell’ex Federazione Jugoslava». Sul fronte opposto, invece, il primo ministro Đukanović si è proposto come punto di riferimento delle minoranze, in particolare di bosniaci e albanesi, soprattutto in funzione antiserba e facendo leva su sentimenti che a oltre 21 anni di distanza dagli accordi di Dayton non sono ancora dimenticati.
La fine della campagna elettorale è stata caratterizzata dalla tensione e da preoccupazioni per le immediate conseguenze del voto: il giorno prima delle elezioni, infatti, le autorità montenegrine avevano arrestato un gruppo di paramilitari serbi, che secondo loro volevano compiere un colpo di Stato, mentre le opposizioni hanno denunciato brogli sin da subito. «Il clima di tensione è stato molto pesante – ricorda Daniele Bellocchio – . Dal primo pomeriggio di domenica e andando verso sera si è respirato un clima che secondo alcuni somigliava a quello della guerra, e a un certo punto sono stati sospesi Viber e Whatsapp, due tra i più importanti sistemi di messaggistica istantanea, al punto che sembrava quasi di rivivere quello che era avvenuto in Turchia a luglio. Contestualmente, è stato sconsigliato alla popolazione, attraverso le televisioni pubbliche, di scendere in strada, e di ora in ora i messaggi che arrivavano prospettavano una notte di fuoco».
Nonostante le attese, però, le strade di Podgorica sono rimaste sostanzialmente vuote, caratterizzate da un silenzio inquietante e dall’assenza totale di caroselli o di festeggiamenti, anche da parte dei sostenitori di Đukanović.
Secondo gran parte degli osservatori internazionali, questo voto è stato una specie di referendum sul futuro posizionamento del Paese rispetto agli schieramenti che attraversano la regione. Questa dimensione è stata supportata in particolare dallo stesso Đukanović, che quattro anni fa aveva aperto i negoziati per entrare nell’Unione europea, e che fra pochi mesi ufficializzerà l’ingresso del Montenegro nella Nato. Questi due atti politici sono stati definiti «una provocazione» dai rappresentanti diplomatici della Russia nei Balcani occidentali, ma viene contestata anche internamente. Se da un lato, infatti, i sostenitori dell’attuale governo ritengono che l’ingresso nell’Unione europea sia fondamentale per il futuro e per avvicinare il Paese ai livelli di benessere dell’Unione europea, «chi invece è un oppositore dell’attuale maggioranza – conclude Bellocchio –, sostiene che invece il Montenegro non debba entrare in Europa e non debba entrare nella Nato, ma debba puntare ad avere una propria neutralità e un proprio sviluppo senza prendere posizione in questa battaglia che sembra trasformare il Montenegro nel nuovo “palcoscenico” della guerra tra Nato e Russia, in termini ovviamente metaforici».