Domenica 9 ottobre il Primo ministro dell’Etiopia, Hailemariam Desalegn, ha annunciato l’istituzione nel Paese dello stato d’emergenza. Si tratta, secondo il governo, di un tentativo per arginare l’ondata di proteste che da mesi sta attraversando il paese.
All’inizio di ottobre, infatti, centinaia di migliaia di persone sono scese in strada per manifestare contro decenni di abusi, discriminazioni ed emarginazione, portando alla massima forza ed estensione un’ondata di proteste che erano cominciate nel novembre del 2015 nelle regioni dell’Amhara e dell’Oromia, due tra le più popolate del paese.
Secondo il governo, le proteste degli ultimi 12 mesi sono organizzate da “forze straniere”, e questo ha portato Desalegn alla decisione di schierare l’esercito. Si stima che dall’inizio delle proteste siano morte più di cinquecento persone e ne siano state arrestate molte altre. Lo stato d’emergenza non veniva imposto da 25 anni, e ha avuto come immediate conseguenze il blocco dell’accesso a Internet al fine di impedire l’organizzazione di nuove proteste. Carmen Bertolazzi, giornalista e collaboratrice dell’Iismas, Istituto internazionale di scienze mediche antropologiche e sociali, è tornata da pochi giorni dall’Etiopia, e cerca di fare chiarezza su una protesta descritta troppo superficialmente come di natura etnica.
Quali sono le rivendicazioni di chi sta protestando da mesi?
«Bisogna collocare queste proteste all’interno di una sofferenza diffusa in tutta la popolazione, e non soltanto tra gli Amhara e gli Oromo. Il Pil dell’Etiopia è schizzato del 10% annuo negli ultimi dieci anni: questo ci racconta di un Paese in grande sviluppo, il che significa anche, purtroppo, grandi disparità. Da una parte la capitale, Addis Abeba, è ormai una metropoli in continua espansione dove si può trovare di tutto, ma se si va nelle campagne, nelle zone rurali più remote, la situazione è completamente diversa. Il problema è che ovunque sono aumentati i prezzi, compresi quelli dei generi di prima necessità, come il teff, che è la farina con cui si cucina l’injera, il tipico pane etiope, oppure il berberé, il mix di spezie che sta alla base della cucina etiope. Sono aumentati anche i prezzi delle abitazioni, del cibo e dei vestiti, cioè di gran parte dell’economia di base, e questo provoca grandi criticità nella vita quotidiana».
C’è anche una questione generazionale?
«Sì, è un Paese che ha il 60-70% di giovani che sono molto spesso molto scolarizzati, perché il governo ha fatto un investimento sull’educazione. Il budget dello Stato viene speso innanzitutto per la difesa e in seconda battuta per l’educazione, però poi i giovani sono disoccupati, e quindi le loro aspettative di futuro vengono deluse».
Quindi la protesta ha radici economiche, più che etniche?
«Sì, la rappresentanza etnica è soltanto la manifestazione, ma sotto c’è ben altro, e il governo deve risolvere proprio questo. C’è un altro problema, quello delle terre: in Etiopia, come in tanti altri paesi africani, le grandi multinazionali e le grandi società indiane, cinesi, brasiliane, sudafricane, europee e anche italiane, comprano tutti i terreni migliori per assicurarsi il cibo per il futuro. Il landgrabbing avviene in tutti i Paesi, dal Kenya al Mozambico e all’Angola, e questo significa sottrarre terre buone ai contadini. Se si considera che l’Etiopia è un Paese che vive sull’agricoltura, questo comporta povertà, quindi questa è la questione basilare».
Quindi il problema della rappresentanza non sussiste?
«Se parliamo della rappresentanza partitica certamente sì: esiste da sempre un partito unico, e quando si presentano partiti dell’opposizione quello al governo dice che si tratta soltanto di nuovi partiti infiltrati da persone che vogliono destabilizzare il Paese, e quindi alla fine la rappresentanza rimane unipartitica. Anche questo è un fattore che si presenta in altri Paesi africani, come il Mozambico, ma qui poi questa tensione è diventata una guerra tra etnie. Tuttavia non concordo sulla natura etnica: gli Oromo e gli Amhara, che sono il 60% della popolazione totale, accusano i tigrini di concentrare su di sé i posti di potere, e questo può essere anche vero, ma il problema è che il popolo tigrino non è un popolo pieno di poteri, di privilegi e di ricchezza, non sono un’élite».
Quali sono le loro condizioni di vita?
«Difficili. I tigrini hanno la terra più dura: molto spesso hanno dovuto anche loro migrare all’interno del loro Paese per cercare di avere terre più fertili, perché il Tigray è tutto fatto di sassi e rocce, quindi resiste la pastorizia, ma per il resto c’è grande povertà nel Tigray. Noi lo sappiamo bene, lavoriamo lì con un progetto, peraltro finanziato dall’Otto per mille della Tavola Valdese: vediamo con i nostri occhi qual è la realtà del popolo tigrino e trovo molto pericoloso che si sia scatenata questa guerra etnica, perché sappiamo dalla storia dell’Africa che spesso è l’inizio di ben altre guerre».
Si è parlato di una dimensione, quella sfociata dall’incontro tra il presidente etiope Mulatu Teshome Wirtu e il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, qui si è detto “qui non ci sono state obiezioni a proposito di massacri compiuti dai tigrini. Lei ha notizie di queste vicende? Sono più controverse rispetto alla narrazione prevalente.
«Devo dire che non ho ovviamente per motivi anche di sicurezza personale, non sono andata direttamente nel centro della protesta che poi è prevalentemente Gondar, la vecchia capitale, però per esempio nel Tigray, nel mese di settembre, arrivavano moltissimi tigrini che erano stati cacciati da quelle zone, nell’Amhara, nell’Oromia, avendo lavorato nei campi piuttosto che avendo un piccolo negozietto, no? Così di telefonini piuttosto che di pomodori e che sono stati assaliti e perseguitati dagli Oromo e dagli Amhara e che hanno dovuto scappare addirittura a un certo punto, a metà settembre, hanno bloccato le vie d’accesso da questa zona che diciamo è a nord ovest verso il Tigray, cioè i tigrini non potevano più tornare nel Tigray, tanto che hanno dovuto passare la frontiera col Sudan, il Sudan ha dato ospitalità a questi particolari profughi e li ha fatti rientrare nella sua frontiera Sudan-Tigray e nel nord esattamente poi nella zona dove noi serviamo questo ospedale. Questi sono fatti veri, li abbiamo sentiti raccontare, abbiamo visto tantissime persone con questi bajaj che è questa specie di moto coperta tipo indiana a tre ruote, che di solito fanno servizio nel paese, nelle cittadine, e che invece hanno attraversato tutte le montagne per scappare da quelle zone. È evidente che poi si scatena una furia e una rabbia reciproca».
Nei prossimi sei mesi lo stato d’emergenza porterà sicuramente a irrigidimenti tra le parti. Come si potrà uscire da questa crisi?
«Credo che il governo debba fare delle riforme, debba compiere delle aperture dal punto di vista della rappresentanza politica e che poi debba fare delle riforme economiche per affrontare i problemi della popolazione. Il fatto è che lo sviluppo non è negativo di per sé, ma c’è bisogno che non sia sulle spalle degli etiopi, perché non si possono obbligare le persone a scappare. Spesso gli etiopi finiscono per mettersi nelle mani dei trafficanti di uomini, c’è bisogno che l’Etiopia ritrovi la strada che aveva intrapreso per diventare un Paese leader nel continente. Pensiamo alla Nigeria e a tutte le difficoltà che ha con Boko Haram, oppure alle criticità del Sudafrica, e rendiamoci conto che l’Etiopia stava diventando anche una buona pratica di sviluppo in Africa. Spero che il governo capisca che non può perdere quest’occasione e che introduca dei cambiamenti».