Nella giornata di mercoledì 28 settembre “Un ponte per…”, organizzazione umanitaria attiva da 25 anni in Medio Oriente, ha consegnato medicinali e materiali di supporto alle popolazioni presenti nel territorio del Rojava, l’area a maggioranza kurda della Siria. Nei prossimi giorni, le distribuzioni permetteranno di dare assistenza a oltre 20.000 persone fornendo farmaci introvabili da anni nel Paese, ma non sarà un evento isolato: nei prossimi mesi verranno distribuiti aiuti umanitari per circa 50.000 persone sfollate e rifugiate in diverse città e diversi centri, oltre a un supporto psicologico e sociale per altri 75.000 profughi e sfollati interni.
«Ieri pomeriggio – racconta Luca Magno, operatore di “Un Ponte Per...” che ha partecipato alla consegna – siamo finalmente riusciti a passare la frontiera tra l’Iraq e il nordest della Siria e a far entrare un carico importante di aiuti umanitari in quella terra martoriata, che si trova in un costante stato di assedio e schiacciata da una guerra che sembra non finire mai».
Perché avete deciso di intervenire in questo modo?
«Quella popolazione è allo stremo, e sappiamo che il primo bisogno sono i medicinali, e quindi siamo riusciti a portare tutta una serie di medicinali ormai introvabili da anni in Siria, e tutto questo ha avuto una complessità incredibile. Ci siamo riusciti grazie al supporto dei nostri donatori, tra cui il governo italiano, la cooperazione italiana allo sviluppo, l’Otto per Mille della Tavola Valdese e la provincia autonoma di Bolzano, e grazie all’impegno di tutto il nostro staff, iracheno e siriano, che si è impegnato in una corsa estenuante contro il tempo per riuscire a passare la frontiera, per gli ostacoli burocratici e anche perché il passaggio è molto complicato in sé: è aperto molto di rado e in pochissimi riescono a far entrare gli aiuti. Anche le Nazioni Unite li ha dovuti sospendere per un lungo periodo».
All’atto pratico la giornata di ieri com’è andata? Cosa avete fatto e quali sono stati i principali problemi che avete incontrato sulla vostra strada?
«Ieri i camion con il carico di medicinali e di kit igienico-sanitari per le persone che fuggono dalla guerra sono partiti da Erbil alle cinque di mattina, e grazie anche all’esperienza che Un Ponte Per ha in questo Paese da 25 anni, e da due anni anche nel Rojava, la regione autonoma a maggioranza kurda nel nordest della Siria, siamo riusciti a completare questa operazione. Alla fine verso le 16 siamo riusciti a entrare in Siria con questi carichi. La difficoltà più grande è stata riuscire a ottenere i permessi e coordinare le operazioni durante tutto il giorno, con un grande dispendio di forze per il nostro staff. Quello che è importante, però, è che queste medicine e questi kit siano arrivati, perché erano urgentissimi e sono una goccia nell’oceano del bisogno dei siriani. Questo ci rende orgogliosi, perché passare questo ponte, e di fatto crearne uno tra Iraq e Siria, è una cosa che abbiamo fortemente voluto e la sfida è riuscirci con continuità. Si tratta di un ponte in tutti i sensi, anche in senso più ampio, perché in questo momento il passaggio del confine tra Iraq e Siria non è realmente riconosciuto dalle Nazioni Unite o dai governi. È un ponte di plastica, su cui possono transitare soltanto piccoli camion e inoltre è aperto da poco più di un anno grazie all’amministrazione della regione autonoma del Kurdistan siriano, il cosiddetto Rojava.
Ci sarebbe un passaggio più agevole, cioè il confine turco. Tuttavia, anche se dovrebbe essere il confine legalmente riconosciuto e dovesse essere aperto, a oggi è completamente chiuso, e da qui ci impegniamo per la sua apertura con tutti gli strumenti diplomatici possibili».
Avere dei partner locali è fondamentale. Nel vostro caso su chi potete contare dopo aver varcato il fiume?
«Ad attenderci e aiutarci dall’altra parte del confine c’è sempre la mezzaluna rossa kurda, che è un’organizzazione umanitaria nata nel 2012, dopo il collasso del sistema sanitario siriano, per crearne uno parallelo che potesse coprire i bisogni di tutta quest’area, che da quando si è resa autonoma ha perso l’accesso ai servizi sanitari di base».
È una realtà riconosciuta dalla Mezzaluna Rossa internazionale?
«No, si tratta di un’organizzazione umanitaria non formalmente riconosciuta dal Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Tuttavia, rispetta i principi della Convenzione di Ginevra e cerca di portare aiuti e prestare soccorso a tutta la popolazione, quindi gli aiuti arrivano a tutta la popolazione curda, araba, cristiana e yazida, arrivano nelle cliniche di quattro città e in più cercano di coprire i bisogni dei campi profughi, sia per i siriani sfollati internamente, sia per le persone che sono scappate dalla guerra in Iraq e hanno trovato rifugio in Siria. Sono tutte persone che vivono in condizioni di emergenza e disastro umanitario totale, per cui si tratta di un partner importante che negli ultimi anni è diventato uno degli attori umanitari più significativi. Qui in Siria ha dei white helmet ad Aleppo, inoltre riesce a portare aiuti in maniera indipendente a tutti a tutta la popolazione, indipendentemente da affiliazioni politiche, religiose, o da criteri etnici di esclusione».
Le aree controllate dalla popolazione curda in Siria e Iraq, possono essere, per gli operatori umanitari, il punto di partenza per passare un giorno dall’emergenza allo sviluppo? Possono essere i luoghi da cui ripartire?
«Assolutamente sì. In Iraq, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, ormai quasi indipendente, lo facciamo da dieci anni e sono tanti i progetti di sviluppo, di avanzamento sociale, di peacebuilding, di costruzione di processi alternativi e di rafforzamento della società civile. È un lavoro che impegna oltre duecento operatori umanitari, in maggior parte personale locale formato da noi. Questo è un processo che abbiamo già avviato anche qui nel Rojava, formando operatori sanitari anche per esempio su come prestare soccorsi secondo gli standard internazionali, mentre stiamo cecando di avviare progetti per il sostegno alla società civile che qui è molto debole, ma ha tante risorse umane e tante capacità. Sostenere la società civile significa non solo attraverso risorse economiche, ma anche attraverso l’invio di personale qualificato che possa dare informazioni, e a breve inizieremo un programma di formazione con operatori presenti qui tra gennaio e febbraio. Questo è da sempre il mandato di Un Ponte Per: cercare di portare aiuti umanitari, ma soprattutto attraverso questi aiuti cercare di supportare la società civile e di rafforzarla, perché una volta finita l’emergenza saranno loro a dover costruire il proprio futuro, un futuro che sembra vuoto perché la maggior parte delle persone che sono scappate per prime sono professionisti, dottori e insegnanti, che per tentare di raggiungere l’Europa hanno lasciato gli ospedali e le scuole in cui lavoravano. Tutto il tessuto sociale dev’esser ricostruito, e su questo ci vogliamo impegnare».