Nella predicazione inaugurale del Sinodo, il past. Gianni Genre, per descrivere l’attuale situazione di difficoltà delle Chiese valdesi e metodiste, ha utilizzato la nozione biblica (Lc. 13, 12, in greco) di «astenia»: una patologia che, nel racconto evangelico, deforma il corpo, inibendone radicalmente l’efficienza. Un anno fa, Paolo Ricca aveva parlato di «torpore»; ancora prima, il Sinodo stesso aveva cercato di tematizzare il problema utilizzando la nozione di «crisi». I sintomi sono molteplici: il calo numerico costituisce l’indicatore statistico più vistoso; esso porta con sé l’acutizzarsi delle difficoltà finanziarie, l’assottigliarsi delle attività in molte chiese locali, la difficoltà nel reclutamento dei quadri. Il sermone del past. Genre ha riproposto la drammaticità della situazione, ma ha anche riattivato, per contrasto, la tendenza di ampi settori delle nostre chiese a mettere in opera meccanismi di rimozione. Ne vedo circolare, ormai da decenni, essenzialmente tre.
Il primo è il più semplice: il problema non esiste. Le analisi preoccupate vengono liquidate come «pessimismo», mentre la fede, si sa, chiama all’«ottimismo». Insistere sui numeri è sbagliato, lo sapeva già Israele. Chi, come Genre, rileva l’«astenia» demoralizza le truppe. Siamo pochi, ma siamo buoni; anzi, forse siamo pochi proprio perché buoni, talmente buoni da fare selezione, come i reparti speciali delle forze armate. Quando si parlava di «crisi», qualcuno è giunto a dire che essere in «crisi» è bello e giusto, perché la parola, in greco, vuol dire giudizio e la chiesa è, per sua natura, sotto il giudizio di Dio. Questa strategia di rimozione è la più efficace perché la negazione dell’evidenza resiste a ogni argomentazione.
Il secondo modello argomentativo rileva che, in Europa, tutte le chiese sono nei guai: anzi, per alcuni aspetti c’è persino chi lo è più di noi. Ritengo che ciò sia vero. Mi sfugge, tuttavia, perché e in che senso la notizia di una catastrofe generale dovrebbe consolarci. In ogni caso occorre rilevare alcune grandi differenze, ad esempio che la chiesa cattolica resiste meno peggio di quelle evangeliche storiche, a parte il tracollo nel reclutamento del clero, dovuto a ragioni evidenti. Se, poi, per una grande chiesa di popolo la crisi significa drastica ridefinizione del proprio assetto, per una piccola chiesa di minoranza esiste il concreto rischio della sparizione. Naturalmente si può sempre affermare, non senza ragione, che ciò che conta è che Cristo sia predicato e non che le nostre chiese sopravvivano. Non vorrei, tuttavia, rassegnarmi troppo presto a quest’ultimo scenario e non sono sicuro che il «mal comune, mezzo gaudio» ci aiuti.
La terza strategia di rimozione è sociologicamente raffinata e molto postmoderna. In una società «liquida», si dice, i vecchi modelli di appartenenza non funzionano più. È vero, basta guardare, per fare un solo esempio, la storia recente dei partiti politici. L’analisi continua, di solito, con la citazione di una famosa sociologa della religione, Grace Davie, che parla di «credere senza appartenere» (believing without belonging). Ciò che i pessimisti chiamano «crisi» è dunque la partecipazione delle nostre chiese alla «liquidità» generale. Mi permetto solo alcune osservazioni. 1) Il credere senza appartenere può forse essere tentato (sociologicamente parlando) all’interno di un modello di chiesa di popolo. Chiese come le nostre (che vivono di contribuzioni volontarie; hanno organismi rappresentativi pletorici che esigono un notevole tasso di impegno; hanno numeri così piccoli da rendere necessarie alte percentuali di coinvolgimento, solo perché le iniziative possano sussistere; ecc.) richiedono non solo l’appartenenza, ma una discreta robustezza di motivazione. La «liquidità» sociologica è precisamente quanto non ci possiamo permettere. 2) Molte chiese evangelicali, molte chiese straniere in Europa, molti movimenti cattolici propongono, con successo, forme assai forti di appartenenza. La «liquidità» è un aspetto del presente, ma non l’unico. Questo dal punto di vista sociologico. Se poi è lecita un’osservazione d’altro genere, chiederei: è sostenibile, in base alla Nuovo Testamento, una fede «liquida», senza appartenenza? Si tratta dell’appartenenza a Cristo, certo: ma essa non è mai dissociata, nella Scrittura, da quella al suo corpo ecclesiale.
Non basta, ovviamente, denunciare l’«astenia» per indicare vie d’uscita: non è casuale che il testo della predicazione sinodale fosse un racconto di miracolo. È anche giusto evitare di farsi catturare da una sorta di «sindrome di Fort Alamo» (versione nostrana: «Pra del Torno non deve cadere»), che si immagina i pochi (ma duri e puri) superstiti impegnati nell’ultima, disperata, resistenza. Molto più semplicemente, alcuni, e il sottoscritto tra essi, ritengono che: 1) la politica dello struzzo, in qualunque forma, non paghi; 2) mentre continuiamo, giustamente, a fare quello che abbiamo sempre fatto, cercando di farlo un po’ meglio, e individuiamo nuovi fronti sui quali riteniamo necessario impegnarci, dobbiamo sapere che un consolidamento numerico delle comunità è un obiettivo prioritario. Non perché sia importante in sé, ma perché costituisce la condizione elementare per il presente e il futuro della testimonianza evangelica in questo paese.