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Le chiese sono ancora un rifugio invalicabile per le forze dell’ordine? Si possono commettere arresti al loro interno, anche senza flagranza di reato? Il tema è delicato, le norme variano da Stato a Stato, antiche prassi si confondono con nuove leggi, con il risultato che spesso e comunque ai luoghi di culto viene riservato uno status di luogo di accoglienza e di difesa per chi è in cerca di protezione.

Sta facendo molto parlare in Germania l’arresto effettuato nei giorni scorsi da parte della polizia in un monastero della diocesi di Munster di un trentunenne ghanese, irregolare nel paese in quanto identificato e registrato in Ungheria, nazione in cui avrebbe dovuto quindi rimanere in attesa di conoscere se la propria domanda di asilo sarebbe stata accettata o meno, secondo gli ormai tristemente noti accordi di Dublino che obbligano il migrante a compiere il proprio iter burocratico nella prima nazione dell’Unione europea in cui viene registrato.

L’asilo ecclesiastico, in tedesco kirchenasyl, cioè l’accoglienza temporanea di persone che vedono i propri diritti a rischio non è una pratica del passato, ma da almeno 30 anni è nuovamente un esercizio pressoché quotidiano per centinaia di chiese cattoliche e protestanti tedesche. Giuridicamente i luoghi sacri non sono al di sopra della legge, tanto in Italia (leggi Siccardi del 1850 e Patti Lateranensi del 1929 il cui l’articolo 5 recita comunque con formula ambigua “Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l'esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all'autorità ecclesiastica”) quanto in altre nazioni, Germania compresa, dove però per antica prassi le forze dell’ordine evitano di compiere arresti in chiesa, più che altro per evitare di turbare l’opinione pubblica con immagini di violenza in un luogo di culto. Si tratta in sostanza di una sorta di tacito accordo. Ma ora che i rifugiati nelle chiese cristiane sono divenuti un numero assai elevato il tema è tornato di attualità, tanto che anche il ministro degli Interni tedesco Thomas de Maiziere ha chiesto ai leader ecclesiastici di interrompere la pratica, definendola un retaggio del passato e comparandola ad una norma fondamentalista degna della Shari’a, scatenando ovvie polemiche e prese di posizione.

Il vescovo della città di Munster si è detto «profondamente turbato per le modalità di arresto di una persona nei nostri locali, senza alcun preavviso e senza motivi validi perché il ragazzo non rappresenta un pericolo per nessuno, ma anzi rischia di vivere una situazione di pericolo se ricondotto in Ungheria».

I vari rappresentanti delle chiese della città di Munster hanno alla stessa maniera manifestato l’amara disapprovazione per un simile arresto «che rischia soltanto di porre in una situazione di pericolo l’uomo, perché la nazione ungherese al momento non pare garantire il rispetto dei diritti di migranti e richiedenti asilo».

E a dar manforte alle loro parole è giunto anche, il 24 agosto, un pronunciamento d’urgenza del tribunale di Munster, che ha sospeso la pratica di espulsione del rifugiato e ordinato la sua immediata scarcerazione, in quanto secondo i giudici la presa in carico di rifugiati da parte del governo ungherese non risponde agli standard della legislazione europea in materia né a quelli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, contravvenendo in questo modo a quanto invece affermato dal ministero per le Migrazioni e i rifugiati che in una nota non aveva avvisato alcun pericolo per il soggetto in questione .

Si è comunque creato in Germania in questa maniera un precedente che ha forzato una situazione esistente da anni, seppur per l’appunto al limite fra legge e consuetudine, perché l’arresto non ha riguardato un pericoloso latitante o un soggetto colto con le mani nel sacco, ma un richiedente asilo, una delle categorie universalmente più fragili.

Una situazione analoga ha sconvolto a luglio la piccola comunità di Laugarneskirkja in Islanda: due giovani iracheni irregolari, uno dei quali minorenne, sono stati prelevati con la forza dall’interno della chiesa luterana del paese, mentre erano circondati dai fedeli fra canti e preghiere, e trasferiti in Norvegia. Anche qui polemiche e dibattiti hanno infuocato le pagine dei giornali.

Negli anni ’80 il Sanctuary Movement negli Stati Uniti era nato per dare accoglienza alle centinaia di migliaia di profughi in fuga dalle guerre civili di Panama, Nicaragua, El Salvador, Guatemala, inseguiti dal governo di Washington perché sospettati di terrorismo senza alcuna prova. Più di duecento chiese e sinagoghe vennero aperti ai rifugiati, 8 fra i leader del movimento vennero arrestati, ma i rifugiati trovarono infine asilo e lavoro negli Usa e le polemiche si placarono.

In Ucraina durante la rivoluzione del 2014 tutte le chiese, cattoliche, ortodosse, protestanti, hanno aperto le porte per far rifugiare la folla di cittadini comuni, scesi in piazza per manifestare e attaccati dalle forze dell’esercito che non si sognarono di valicare le porte dei luoghi di culto.

Il coraggioso impegno quotidiano di tante comunità cristiane meriterebbe un ripensamento serio del tema della gestione dei richiedenti asilo. Non è infatti ammissibile che le modalità di arrivo e permanenza in Europa siano al momento giuridicamente più rilevanti dei motivi per cui tutte queste persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, le proprie radici.

Immagine: via flickr.com

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