Infrastrutture nel Mezzogiorno: un aggiornamento difficile
10 agosto 2016
Antichi retaggi storici e il ritirarsi dello Stato ostacolano una visione progettuale
A seguito dell’incidente ferroviario costato la vita oltre venti persone, nella tratta tra Andria e Corato, le inchieste in corso e i commenti hanno puntato l’attenzione anche sulle infrastrutture nel Mezzogiorno e sul loro stato più o meno adeguato; le condizioni della rete ferroviaria tuttavia fanno parte di un più ampio problema, che affonda le proprie radici nella storia complessa del Sud d’Italia. Su questa eredità e anche sull’oggi abbiamo chiesto l’opinione di un addetto ai lavori.
In verità, qui al Sud stiamo ancora pagando le conseguenze di una partita storica giocata mille anni fa, quando, con la vittoria normanna, iniziò la «conversione» del Mezzogiorno al feudalesimo che accompagnava gli invincibili uomini del Nord. Con il senno di poi, c’era invece da tifare per i bizantini che avevano rifiutato quel modello, totalmente opposto alla loro concezione fortemente statalista.
Così, il feudalesimo dilagò nel Mezzogiorno d’Italia, e ci restò a lungo imponendosi nel suo Dna culturale e politico e nella struttura economica e di potere, proprio mentre cominciava invece a declinare nel resto della Penisola, ove rinascevano le città e si affermavano le autonomie dei Comuni insieme a un nuovo ceto urbano attivo e dinamico.
Il bilancio storico, sociale, politico ed economico di quella lontana vittoria non è esaltante. Quando per quasi mille anni il profilo prevalente è stato quello del suddito, dipendente dalle scelte altrui, capita che non sei abituato ad auto-organizzarti, a compiere scelte logiche e ponderate, né ad assumerti le tue responsabilità. La colpa delle «sfighe» è sempre del padrone o del potere, al massimo del destino cinico e baro.
La modernizzazione del Sud è stata lenta e difficile. Nei primi decenni del dopoguerra ha vissuto un potenziamento infrastrutturale che aveva avuto il suo battesimo già durante il fascismo, con la costruzione degli acquedotti, delle fognature, delle scuole, delle reti ferroviarie ed elettriche, la bonifica delle paludi, ecc. Fino agli anni ‘70-’80, grazie all’intervento ordinario dello Stato e a quello straordinario della Cassa per il Mezzogiorno, sono arrivate le autostrade, i porti potenziati e qualche aeroporto, gli ospedali e le scuole della scolarità di massa, le reti delle telecomunicazioni e del metano, la infrastrutturazione delle aree industriali e persino i «poli di sviluppo». Malgrado i tanti errori, non è stato uno sforzo da poco.
Quei programmi erano stati studiati e avviati a livello centrale, attraverso i vari ministeri e la Cassa. Con l’avvento delle Regioni, nate negli anni ‘70 e divenute operative verso la fine degli anni ‘80, è giunta l’era del decentramento, nella quale lo Stato ha ceduto alle Regioni e agli enti locali importanti quote di decisionalità economica e programmatica, nel principio della sussidiarietà alla base del Trattato di Maastricht del 1992.
La conseguenza più evidente è stata la ritirata della programmazione statale dalle regioni del Sud meno sviluppate, con un prodotto interno lordo (Pil) pro capite inferiore al 75% della media UE. In compenso esse, per poter risolvere i propri problemi strutturali, in poco più di vent’anni hanno ricevuto forti contributi, finanziati al 50% dall’Unione Europea e al 50% dallo Stato e dalle Regioni stesse. Dal 1994 al 2015 in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia – e fino al 2007 anche in Molise e Sardegna – sono complessivamente arrivati quasi 120 miliardi di euro di fondi comunitari che queste Regioni hanno avuto piena facoltà di spendere come meglio credevano per curare i propri mali.
Il bilancio dell’operazione è però deludente. Nel 2013 la classifica della competitività delle 270 regioni europee (EU Regional Competitiveness Index), vedeva Molise 201°, Campania 217°, Sardegna 222°, Basilicata 227°, Puglia 232°, Calabria 233° e Sicilia 235°. Nella dotazione infrastrutturale la Campania risultava al 112° posto, la Puglia al 171°, il Molise al 177°, la Basilicata al 184°, la Sicilia al 194°, la Calabria al 211° e la Sardegna al 231°. Nonostante tutti i soldi a disposizione, tra 2000 e 2010 il divario tra Nord e Sud era aumentato dell’1% rispetto alla media del Paese. Nella dotazione infrastrutturale il Sud, rispetto al Centro-Nord, risultava indietro del 20% per la rete stradale, del 25% per gli ospedali e strutture sanitarie, del 30% per la rete ferroviaria e del 60% per gli aeroporti.
Non è andata meglio nella creazione di ricchezza, che è cresciuta davvero poco. Eurostat nel 2013 fissava per la Calabria un Pil pro capite pari al 57% della media delle regioni europee, al 61% per Sicilia e Puglia, al 63% per la Campania, al 69% per Basilicata e Sardegna e al 70% per il Molise.
Al tirare delle somme, se da una parte lo Stato si è lestamente e furbamente ritirato dalla infrastrutturazione del Mezzogiorno – tanto che anche l’alta velocità, come Cristo, ha dovuto fermarsi nei pressi di Salerno – dall’altra, la visione strategica di insieme, indispensabile nei programmi di infrastrutturazione e sviluppo di vaste aree territoriali, ha dovuto cedere il passo nel Sud a un’infinita serie di «comitati di quartiere» rissosi, rapaci e inconcludenti.
In un’orgia di megalomani ospedali mai finiti e abbandonati, faraoniche superstrade che terminano nelle erbacce, aree industriali mai attivate e malinconicamente abbandonate, ponti sbriciolati e centri direzionali diroccati, una «classe dirigente» nel complesso fallimentare – talvolta incapace di spendere tutti questi soldi persino per ungere le proprie clientele – non ha pensato alla sicurezza e allo sviluppo, bensì al particulare e al campanile. Purtroppo, nel Mezzogiorno, il vero latitante risulta il concetto di «responsabilità personale». Tutta colpa dei normanni!