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Dietro la Brexit

Rubrica «Essere chiesa insieme», a cura di Paolo Naso, andata in onda domenica 3 luglio durante il «Culto evangelico», la trasmissione di Radiouno a cura della Fcei

A poche ore dal risultato del referendum inglese sulla permanenza nell’Unione europea, le cronache documentano che a Birmingham – una delle città più multietniche del Regno Unito – gruppi di giovani giravano per i quartieri frequentati dagli immigrati gridando: «Andatevene. Abbiamo votato per la Brexit».

Tutti gli analisti concordano sul fatto che tra le ragioni che hanno spostato il voto a favore del no alla permanenza nell’Ue vi sia proprio la questione dell’immigrazione. Gli argomenti sono quelli più ovvi e diffusi anche in altri paesi europei: «gli immigrati sono troppi»; «rubano il lavoro agli inglesi», «i loro quartieri sono degradati».

La verità è un’altra. Negli anni il Regno Unito ha favorito l’ingresso di immigrati qualificati, spesso di provenienza asiatica, che hanno trovato occupazioni qualificate e ben retribuite, evidentemente lasciate scoperte dalla forza lavoro nazionale.

L’immigrazione nel Regno Unito è cresciuta sull’onda dell’eredità delle colonie nel quadro di un processo ordinato e in qualche misura orientato da specifiche politiche del Governo di sua Maestà che in anni di crescita economica hanno favorito l’immigrazione e, grazie a questa, accelerato il ritmo di sviluppo del Paese.

Caratterizzato da un crescente pluralismo etnico e religioso, il Regno Unito si è posto il problema della gestione di questa nuova complessa realtà e ha elaborato la formula del famoso e controverso «comunitarismo»: l’idea che la società britannica si potesse strutturare in comunità aggregate sulla base di criteri etnici o religiosi, sia pure nel quadro di una comune condivisione dei principi fondamentali del Regno.

Questa strategia comunitaristica nel tempo ha mostrato i suoi limiti: non ha creato comunicazione, scambio, integrazione tra britannici e immigrati ma, al contrario, isolamento e ghettizzazione. La mancanza di coesione sociale, di spazi di formazione condivisi, di ambienti multietnici e interculturali ha rafforzato sentimenti di autoghettizzazione degli immigrati da una parte e spinte xenofobe dall’altra.

I movimenti politici dell’estrema destra, da sempre tanto antieuropei quanto contrari all’immigrazione, hanno soffiato sul fuoco e determinato un clima di tensione e paura.

Dietro la Brexit c’è anche questo. L’ombra oscura di un sentimento xenofobico e talora razzista che nulla ha a che fare con la tradizione britannica nel campo dei diritti umani, delle politiche di accoglienza e di valorizzazione della risorsa umana costituita da milioni di immigrati che hanno contribuito alla ricchezza materiale e culturale del Regno Unito.

Ma allora che c’entrano gli immigrati con la Brexit? Poco o niente. Ma anche in questo caso vale la vecchia storia del capro espiatorio: quando qualcosa non va si cerca un responsabile, e in genere è il soggetto più debole e indifeso. Una povera capra nelle tradizioni dei popoli del vicino oriente; l’immigrato oggi, l’immigrato espiatorio.