L’attentato all’aeroporto Atatürk di Istanbul che nella notte tra martedì e mercoledì ha provocato 42 morti e oltre 200 feriti, continua a far parlare di sé, anche se il clamore suscitato all’interno dei confini europei è inferiore rispetto a quello di un’azione quasi identica come quella avvenuta all’aeroporto di Bruxelles a marzo.
Nella giornata di ieri e ancora questa mattina numerosi organismi ecclesiastici a livello internazionale hanno espresso il loro cordoglio per le vittime e la loro indignazione per quanto accaduto: tra gli altri, il World Council of Churches ha parlato di «crimine odioso», mentre il moderatore della Tavola Valdese, Eugenio Bernardini, ha commentato con «un pensiero e una preghiera» questo nuovo «dolorosissimo momento».
La Turchia nel mirino
Come in altre occasioni, anche dopo questo attentato, il quattordicesimo dall’inizio del 2016 in territorio turco, il dito è stato subito puntato sul gruppo Stato islamico o Daesh, il gruppo terroristico che due anni fa aveva proclamato il Califfato in Siria e Iraq sfruttando il caos della guerra civile siriana. Ma perché proprio la Turchia? I motivi sono molti, in gran parte legati alla trasformazione del ruolo del Paese nel corso dei (finora) cinque anni di guerra civile. In una lunga intervista concessa due giorni fa a Yahoo News, il direttore della Cia, John Brennan, ha affermato che «ci sono molte ragioni per cui il Daesh intende colpire la Turchia».
Sin dall’inizio dell’ascesa del Daesh nell’universo dei gruppi ribelli siriani, su gran parte dei passaporti dei suoi combattenti stranieri, ritrovati dopo le battaglie o recuperati dai loro corpi, compare il timbro della Turchia, luogo attraverso cui sono passati migliaia di foreign fighters, che hanno sfruttato l’unico passaggio possibile per raggiungere la Siria e combattere al fianco del gruppo Stato islamico.
Secondo le principali agenzie di intelligence dei Paesi occidentali, così come secondo le testimonianze raccolte dal gruppo Site, che monitora la presenza jihadista in rete, i combattenti che dai territori occupati dal Daesh si mettono in contatto con parenti e amici nei loro Paesi di provenienza, ancora oggi lo fanno utilizzando schede telefoniche e numeri turchi, e fino all’anno scorso tutti i trasferimenti di denaro verso i soldati del Califfato avvenivano presso gli uffici di money transfer nel sud della Turchia.
Insomma, il ruolo della Turchia nella storia del Daesh è centrale, pur se complessa: per anni, infatti, il territorio turco è servito come base per alcune operazioni, hub per il transito di persone e armi oppure come luogo sicuro nel quale sfuggire a una battaglia, e questo ha garantito una forma di protezione dalla violenza che il gruppo Stato islamico ha portato negli altri paesi confinanti con Siria e Iraq e anche in Occidente.
Un anno dopo la svolta
Tuttavia, negli ultimi 12 mesi sembra che molto sia cambiato, e il crescente numero di attentati, riusciti o falliti, che portano la firma del Daesh in territorio turco, è lì a dimostrarlo. È piuttosto evidente che la Turchia stia pagando il prezzo del cambiamento di atteggiamento nei confronti del gruppo Stato islamico a partire dal luglio 2015. Sotto la crescente pressione internazionale, infatti, l’anno scorso il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aveva deciso di chiudere il proprio confine meridionale, rinunciando almeno in parte alla propria strategia di contrasto all’espansione territoriale curda in Siria, e allo stesso tempo aveva permesso all’esercito degli Stati Uniti di utilizzare la base aerea di Incirlik per bombardare i territori controllati dal Daesh in Siria e Iraq.
È possibile considerare quello come il momento in cui la Turchia è diventata un bersaglio del Daesh: due mesi dopo la concessione della base di Incirlik, la copertina di Dabiq, rivista ufficiale del gruppo Stato islamico, ritraeva Erdogan accanto al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e da allora la propaganda del Daesh ha cominciato a riferirsi a Erdogan in modo sempre più dispregiativo, esattamente come successo in altri Paesi prima di attentati. La stessa strategia era stata seguita prima degli attentati a Beirut in Libano, quelli a Tunisi e Sousse in Tunisia e anche prima di quelli di Parigi del novembre 2015. Il periodo è lo stesso dei primi due attentati, quello nella città meridionale di Suruç nel luglio 2015 e quello nella capitale Ankara a ottobre.
Tuttavia, per quanto riguarda la Turchia, rimane un importante elemento di diversità: gli attentati, infatti, sono attribuiti al Daesh, ma non sono mai stati rivendicati dal gruppo. La firma è piuttosto evidente, ma non c'è motivo di dubitare che questa ambiguità sia voluta: il gruppo Stato islamico intende punire la Turchia per il suo cambio di atteggiamento, e lo sottolinea costantemente nella sua propaganda, ma rinunciando a rivendicare gli attentati cerca di evitare uno scontro frontale con un Paese che, pur con crescenti difficoltà, rimane l’unica via di accesso percorribile per raggiungere i territori del cosiddetto Califfato.
L’errore
La Turchia aveva cominciato ad avere buoni rapporti con il Daesh quando all'inizio della rivolta in Siria del marzo 2011 aveva deciso di dare sostegno ai gruppi ribelli che cercavano di rovesciare il governo di Bashar al-Assad in Siria, spesso con la benedizione delle agenzie di intelligence occidentale, che avevano individuato in al-Assad un nemico da rimuovere. In quella fase il gruppo Stato islamico, che pure compariva sin dal 2004 nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dal governo degli Stati Uniti, era ricaduto in questa categoria, anche se era evidente sin da subito che il suo scopo fosse più quello di sconfiggere i concorrenti della cosiddetta “galassia jihadista” e della ribellione contro al-Assad piuttosto che combattere contro il dittatore siriano.
Qui entra in gioco uno tra i più gravi errori di valutazione da parte della Turchia: tra i gruppi anti Assad che il Daesh voleva eliminare c'erano anche gli indipendentisti curdi rifugiati in Siria e Iraq, e Erdogan immaginò all'inizio del conflitto siriano di poter sfruttare a proprio vantaggio questa contrapposizione senza intervenire direttamente, ma lasciando che la polveriera si alimentasse grazie alle rivalità incrociate.
La centralità della Turchia per i volontari stranieri che si univano al Daesh nella fase di ascesa compresa tra il 2014 e il 2015 è evidente: molti tra i presunti foreign fighters arrestati dall'FBI negli Stati Uniti e da diverse agenzie in Europa occidentale avevano prenotato un volo per Istanbul, la destinazione più gettonata per chi intendeva unirsi al Daesh in quella fase.
Nel 2015 il gruppo Stato islamico cominciò a consigliare alle reclute di prenotare biglietti di andata e ritorno verso le località balneari del sud della Turchia e di passare alcuni giorni fingendosi turisti come modo per sviare l'attenzione.
Sia nella prima fase, sia nella seconda, spiegava già poco meno di un anno fa Bulent Aliriza, direttore del Progetto Turchia presso il Csis, Center for Strategic and International Studies, la Turchia è stata troppo lenta nell’accorgersi della minaccia portata dall’Isis. Una critica che in realtà va mossa anche agli alleati occidentali. Secondo Aliriza, quando i gruppi anti-Assad avevano cominciato a guadagnare forza, la Turchia aveva ricevuto l’approvazione della Cia e delle agenzie europee per far passare armi e volontari attraverso il confine e nei campi dei ribelli. Tuttavia, la storia potrebbe ripetersi: la Turchia, infatti, sempre in funzione anti-Assad, dopo aver abbandonato il Daesh, esponendosi alla vendetta, sta sostenendo Jaish al-Fatah, l’Esercito della Conquista, una coalizione jihadista che comprende anche i qaedisti di Jabat al-Nusra e Ahrar al-Sham, formazioni che condividono con il Daesh la visione politica e gli obiettivi di lungo termine, e che armati da almeno cinque anni attraverso i canali turchi, e non solo, potrebbero rappresentare la nuova minaccia regionale. È possibile che le azioni della Turchia abbiano innescato un moto perpetuo?