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Gli «invisibili», noi li vediamo tutti i giorni

«Gli invisibili» con Richard Gere ricorda a tutti noi le difficoltà dei senza tetto e le nuove povertà. Intervista al maggiore Paolo Longo, direttore dei servizi sociali e dell’accoglienza dell’Esercito della Salvezza

«Gli Invisibili» tornano ad essere visibili quando un evento, questa volta un film, si sofferma su di loro. Diretto da Over Moverman, il film presentato pochi giorni fa a Roma racconta la storia di George (Richard Gere), un uomo che da più di dieci anni è un clochard: non ha un lavoro, non ha una casa, non ha soldi, non ha più affetti, se non una figlia - interpretata da Jena Malone - che lavora e che lui, a fatica, incontra ogni tanto. Privo di documenti, per lui è quasi impossibile ottenerne di nuovi; vaga da ufficio ad un altro senza riuscire ad ottenere la sua identità.

Eppure, i senza tetto in Italia sono molti, così come nella città di Roma. Ad occuparsi di loro vi sono molte associazioni, chiese, organizzazioni.

Certamente tra i più attivi in questo campo vi è l’Esercito della Salvezza e che a Roma opera attraverso l’assistenza non solo per le vie cittadine ma attraverso un centro di Accoglienza in Via degli Apuli. Ne abbiamo parlato con il maggiore Paolo Longo, direttore del servizio.

L’Esercito si occupa da sempre di accoglienza di sostegno alle povertà, di assistenza agli homeless, è così?
«L’Esercito della Salvezza, sin dagli albori della sua attività, ha sempre avuto attenzione verso chi era più sofferente; un mandato della nostra fede cristiana. E lo ha fatto impegnandosi in diverse attività sociali: l’aiuto ai senza fissa dimora; corsi di italiano per stranieri; distribuzione di pacchi viveri ed abiti a famiglie bisognose; bazar di beneficenza, e tante altre attività. In alcune grandi città come Torino, Roma e Napoli l'Esercito svolge anche un servizio di soccorso invernale ai senza fissa dimora attraverso pasti caldi e supporto psicologico. Questi servizi sono autofinanziati e possibili grazie alla generosità di donatori e il sostegno di molti volontari. In altre città come Torre Pellice, Torino, Firenze, Roma e Castelvetrano abbiamo invece attivato convenzioni con il Banco Alimentare che ci premette di distribuire pacchi alimentari alle famiglie indigenti».

Dunque avete chiara la situazione reale in tema di povertà?
«Certamente, i bisogni e le necessità negli anni sono cambiati e anche noi abbiamo dovuto modificare il nostro modo di operare e di dare ascolto. La povertà, a volte, corre il rischio di diventare solo teoria e dunque di essere rubricata come elemento di studio sociologico o statistico. Quando invece la si affronta e la si vive nell’esperienza di tutti i giorni si comprende quanto in realtà abbia ripercussioni pratiche. Tutti coloro che vivono la povertà, l’indifferenza, la perdita di una dimora, cercano come prima cosa la possibilità di essere ascoltati e poi aiutati. Dunque noi cerchiamo di dare risposte, certamente anche pratiche e primarie, ma non prima di aver dato loro ascolto. A Roma dal 1923 il Centro – che ha dato vita all’azione sociale dell’Esercito della salvezza in Italia – nel corso degli anni ha modificato la sua azione portandola verso l’ascolto e l’accoglienza».

Esiste una risposta ai bisogni primari?
«Noi crediamo che dopo aver risposto e contribuito al bisogno iniziale, dopo aver distribuito pasti, vestiti e garantito un tetto sotto il quale potersi riparare, sia poi necessario fare un salto di qualità. Dunque per citare un vecchio adagio: non limitarsi a dare un pesce da mangiare ma insegnare contestualmente a pescarlo. I nostri centri hanno, oltre ai servizi primari: ristorazione, camere, settore indumenti e ambulatorio medico e di ascolto, anche l’attività in laboratori che permettono l’inserimento nel lavoro e per la riconquista della dignità perduta. Dunque chiediamo alle persone che ospitiamo di essere parte attiva della nostra società».

L’Esercito della salvezza come nasce e dove è maggiormente attivo?
«Il fondatore era un pastore metodista inglese, William Booth, che con Catherine Mumford nell’era post-industriale sosteneva la difficoltà di poter predicare l’evangelo a chi non aveva neanche la possibilità di mangiare un pasto al giorno e dormire sotto un tetto che lo riparasse. Dunque accanto all’attività ecclesiastica e religiosa è sempre stata fondamentale per noi l’azione sociale. Oggi operiamo in 128 paesi nel mondo: il frutto di una fede in continuo divenire. Noi cerchiamo di essere presenti dove sappiamo esserci necessità. Lo abbiamo fatto anche in occasione dell’ultima strage di Orlando, che ha colpito gli Stati Uniti».

Perché la scelta di definirvi Esercito?
«Il nostro fondatore ha ricevuto la chiamata da parte del Signore di portare al di fuori, nel mondo, l’evangelo di Cristo. All’inizio la nostra struttura si chiamava missione cristiana dell’East End (quartiere tra i più poveri della città) di Londra. Un aneddoto narra che il figlio del nostro fondatore nell’elaborare un testo programmatico di missione per la salvezza dell’intera umanità, disse: noi non siamo dei volontari della salvezza, noi siamo dei regolari, impegnati, e come l’apostolo Paolo ricordava, soldati di Cristo e dunque siamo un esercito. Le nostre decisioni, anche se esiste una struttura gerarchica, sono sempre prese collegialmente. Il grado è utile per ricoprire certi ambiti e o responsabilità. Un solo generale ci coordina a livello mondiale».

Per tornare al disagio sociale, qual è la vostra fotografia attuale?
«Mi occupo di questo tema dagli anni ottanta. Già allora facemmo notare che la povertà non sarebbe diminuita, anzi, che si andava verso una globalizzazione della povertà. Gli uomini, le donne e i bambini che vivono per le strade sono il frutto di disequilibri e ingiustizie che permeano la nostra società. Se in un primo momento erano evidenti la difficoltà legate al fattore economico, oggi con il passare del tempo, abbiamo potuto riscontrare altri problemi. Ad esempio, la legge Basaglia che per molti aspetti è stata nello spirito molto importante, per altri, ha tolto di fatto strutture e assistenza creando così quella che definisco una povertà legata al disagio mentale che molte famiglie non sono in grado di gestire. Questo genera abbandono e solitudine per molte persone in difficoltà. Vi è poi una nuova povertà legata agli eccessi della finanza internazionale che colpisce le famiglie monoreddito ad esempio, e che faticano ad arrivare alla fine del mese e che oggi bussano alle nostre porte per poter usufruire del banco alimentare. Dunque ci muoviamo nel disagio di persone che non hanno nulla e persone che pur avendo un lavoro, un reddito, non riescono a gestire la propria economia famigliare. Molta sofferenza nasce dall’insoddisfazione, dalla perdita di dignità, dalla paura di non poter gestire il precedente standard di vita, quello che si era intrapreso in tempi migliori e che oggi per molti, davvero tanti, non è più sostenibile. Il bisogno delle persone non può essere sostenuto una tantum con politiche sociali a tempo, dev’essere gestito a monte, oppure accompagnato nel tempo».

Immagine: By Tomas Castelazo - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6864446

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