«Cucchi come Regeni», la tortura senza il reato
09 giugno 2016
La requisitoria del Procuratore Generale Eugenio Rubolino nel secondo processo d’Appello sul caso della morte di Stefano Cucchi, sottolinea l'urgenza di dotarsi di uno specifico reato di tortura
Nella giornata di ieri il Procuratore Generale Eugenio Rubolino, che sta portando avanti il secondo processo d’Appello sul caso di Stefano Cucchi, entrato ormai nel suo settimo anno, ha pronunciato una requisitoria molto forte, cominciata con un parallelo tra il caso Cucchi e l’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni, avvenuta in Egitto a fine gennaio.
«Mi rivolgo a voi perché Stefano non muoia per una terza volta – ha dichiarato Rubolino –. La prima volta è stato ucciso dai servitori dello Stato in divisa, e si tratta solo di stabilire il colore delle divise. La seconda volta è stato ucciso sempre dai servitori dello Stato, ma questa volta in camice bianco».
Che cosa hanno in comune questi due casi? La tortura. Un concetto che ha molte facce, e che nell’ordinamento italiano non è regolato da uno specifico reato, creando un clima di sostanziale impunità nei confronti di casi difficilmente riassumibili con reati differenti.
Secondo Susanna Marietti, presidente dell’Associazione Antigone, che da 25 anni si occupa di diritto carcerario, «siamo di fronte a un paradosso».
A che cosa ha pensato quando ha sentito le parole del Procuratore Generale?
«Proprio a questo, cioè al fatto di essere di fronte a un paradosso: se un giorno riuscissimo a individuare i responsabili delle torture e dell’uccisione di Giulio Regeni, e se l’Egitto decidesse di consegnarci queste persone, noi comunque non potremmo incriminarli per tortura, perché nel nostro Paese non è un reato previsto dal codice penale. Su questo aspetto siamo completamente inadempienti non solo di fronte alle vittime, ma davanti a tutto il mondo, perché come sempre ci siamo affrettati a firmare e ratificare una convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma poi non l'abbiamo tradotta in legge dello Stato. Una firma in effetti non costa niente e la ratifica poco di più, è sufficiente un passaggio parlamentare, ma entrambi gli atti non sono niente più che parole. Quella convenzione chiedeva che gli Stati firmatari si dotassero di uno specifico reato di tortura, ma noi non ci siamo mai arrivati, adducendo scuse di ogni tipo».
Dove ci siamo fermati?
«Il testo era partito bene al Senato, poi è passato alla Camera, ha avuto delle modifiche, finché il 5 marzo del 2014 è stato prodotto il testo unificato. A quel punto il testo è tornato al Senato: qui, in Commissione Giustizia, ha incontrato una presa di posizione da parte del relatore e sono emerse diverse proposte emendative che a nostro parere sono fortemente peggiorative. Per esempio, la definizione di “violenza” trasformata in “violenze”, al plurale. Tuttavia non c'è stato alcun passaggio formale, e il testo è ancora fermo lì. Viene da pensare che a questo punto sarebbe meglio un testo imperfetto piuttosto che una situazione come quella attuale, perché sembra che la storia si stia ripetendo: non è la prima volta che un disegno di legge fa un proprio iter parlamentare, anche corposo magari, ma non si è mai arrivati alla fine. Una volta, per esempio, era il 2005, la senatrice della Lega Nord Carolina Lussana fece passare un emendamento secondo cui, affinché si configurasse il reato di tortura, le violenze dovevano essere ripetute. Questo significava che se in due o tre ci fossimo messi d'accordo per colpire una persona una volta a testa non saremmo stati di fronte a un caso di tortura. Ovviamente davanti a una cosa del genere si lasciò morire il testo: era davvero impresentabile».
Che cosa sarebbe cambiato in un caso come quello di Stefano Cucchi se avessimo avuto a disposizione il reato di tortura?
«Serve una premessa: quando dico che manca uno specifico reato di tortura nel nostro ordinamento non sto dicendo che la tortura sia permessa. Sto dicendo che però va a ricadere sotto altre fattispecie di reato, come i maltrattamenti, le minacce o le lesioni. Tutte queste, però, sono fattispecie di reato che hanno pene più basse, e di conseguenza hanno tempi di prescrizione più brevi; inoltre in alcuni casi sono a querela di parte.
L’esempio più lampante dell’urgenza di uno specifico reato di tortura è quello della sentenza sui fatti di Asti, avvenuti nel 2004 e portati a giudizio tra il 2011 e il 2012. Antigone si occupò della vicenda in prima persona: è una storia che racconta di detenuti brutalmente picchiati all'interno del carcere di Asti, tenuti in isolamento due settimane, nudi e con violenze ripetute. Non ci fu una denuncia da parte loro: gli inquirenti stavano indagando per altri fatti, ma sentirono delle intercettazioni e da quelle si resero conto che era successo qualcosa su cui poteva valere la pena indagare. Antigone si costituì parte civile, il processo nei confronti di quattro agenti di polizia penitenziaria andò avanti e si arrivò a sentenza. Ecco, il giudice in quell’occasione disse di essersi trovato di fronte a fatti “esattamente corrispondenti alla definizione di tortura data dalle Nazioni unite”, ma non avendo a disposizione il reato di tortura fu costretto ad appoggiarsi ad altri reati. Le conseguenze furono prevedibili: per due poliziotti questi reati erano a querela di parte, e siccome la querela di parte non c'era stata furono assolti, mentre per gli altri due gli altri erano nel frattempo scaduti i termini di prescrizione, per cui anche loro rimasero impuniti, nonostante il giudice li avesse formalmente giudicati dei torturatori. Se ci fosse stato il reato di tortura questo non sarebbe accaduto».
Il concetto della differenza di potere è centrale: quando una persona ha più potere rispetto a un’altra con cui condivide uno spazio è più facile che le violazioni si concretizzino. Partendo da questo assunto, possiamo considerare il carcere come uno dei luoghi nei quali è più probabile che si verifichino fattispecie di tortura?
«Il carcere si presta, però bisogna tenere presente che comunque offre una serie di garanzie che altri luoghi, come per esempio la cella di sicurezza della caserma di polizia appena si viene arrestati, non possono dare. Nel carcere vige un ordinamento penitenziario, che è una legge ben consolidata, con un magistrato di sorveglianza che controlli alcuni aspetti, con i garanti dei detenuti e con una sorveglianza diffusa, anche sociale, che invece altri luoghi non hanno. Certo, è un posto a rischio, perché è comunque un'istituzione chiusa, nella quale convivono due categorie di persone con livelli di potere molto differenti l'uno dall'altro e con debolezze molto differenti, però non ritengo sia il luogo più esposto».
Rimane comunque un fatto la necessità di ripensare l’intero sistema delle carceri. Qualcosa si sta muovendo?
«Sì, va detto che è stato fatto molto. Certo, l’abbiamo fatto a seguito di quella enorme vergogna che abbiamo subito, cioè la condanna per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce le torture e i trattamenti inumani e degradanti. È uno degli articoli fondanti della Convenzione, e per una democrazia avanzata essere condannati per questo è veramente infamante. Tuttavia, se non altro, una reazione a questa condanna c'è stata, perché il governo avrebbe anche potuto chiudersi in se stesso, reagire male, invece ha fatto delle riforme serie: i detenuti sono calati per vari anni, anche se ora stanno un po' ricominciando a salire. Non solo: anche la vita in carcere ha cambiato ritmo, si sono aperte le celle, che oggi stanno aperte quasi ovunque per otto ore al giorno. Dopodiché c'è tanto da fare, perché quelle ore vanno riempite di contenuti, altrimenti se mi sposto dalla mia branda a ciondolare avanti e indietro per il corridoio della sezione tutto sommato non è che faccia tanto la differenza».
A questo proposito, come procede la riforma del sistema?
«Il disegno di legge giace in Parlamento, ma ha fatto già un suo iter. Speriamo che si vada avanti, anche se ho qualche dubbio, perché si porta dentro talmente tanti elementi di riforma che credo verrà bloccato. Qualora passasse, il governo sarà delegato a scrivere un nuovo ordinamento penitenziario a 41 anni di distanza dal vecchio. Il vecchio è stata una buona legge, ma quarant'anni sono un'eternità, il carcere è cambiato, non è più quello di un tempo: per esempio è cambiata l'utenza, sono arrivati gli stranieri, quasi inesistenti 40 anni fa. Va ripensato quell'ordinamento per garantire più diritti, e garantire significa reintegrare, per cui è utile a tutta la società. Il governo ha messo in piedi una grande consultazione che ha coinvolto molte persone, anche di Antigone, una bella esperienza durata sei mesi chiamata Stati generali sull'esecuzione penale, indetti proprio con l'idea di integrare nella futura riforma quanto suggerito dalla società, da tanti operatori della giustizia, dall'associazionismo e da tutti i componenti di questo ampio mondo. Sono usciti tanti buoni materiali, per cui speriamo che non si fermi tutto qui, anche se il rischio è grande».