Al di là della frontiera
18 maggio 2016
Da Lampedusa ai Corridoi umanitari: problemi, opportunità e contraddizioni dei processi migratori raccontate da Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope
Il 3 maggio scorso sono atterrati all’aeroporto di Fiumicino, con il progetto dei «Corridoi umanitari», 94 profughi siriani e iracheni provenienti dal Libano, dopo i 93 arrivati il 29 febbraio e la prima famiglia, quella della piccola Falak, che ha “inaugurato” i «Corridoi» il 4 febbraio.
Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope a Lampedusa oggi impegnato con i «Corridoi», ha seguito da vicino il loro percorso, dai campi profughi libanesi all’arrivo in Italia.
Perugino, 43 anni, lavora da tempo nel sociale: prima in una comunità psichiatrica, poi sulle dipendenze, quindi con i migranti contribuendo a organizzare lo sciopero dei braccianti a Nardò, e nel campo auto-organizzato di Tempera, dopo il terremoto dell’Aquila, dove ha conosciuto i valdesi.
Ma quella dei «Corridoi» è stata un’esperienza totalmente nuova: gli abbiamo chiesto di raccontarci come l’ha vissuta.
«L’ho vissuta innanzitutto con l’ansia di chi fa qualcosa che reputa importante, e poi di chi va a operare oltre frontiera. Sembra una cosa semplice ma in realtà non lo è: un conto è affrontare le situazioni anche di emergenza in Italia (come mi è capitato a Nardò), sei tu che accogli, sai chi sei, dove sei e che cosa hai intorno. Molto diverso è trovarsi oltre frontiera, come in Libano, uno Stato arlecchino dove ogni frammento di società è diverso e staccato dagli altri, con le proprie idee, culture e riferimenti etici. Trovarsi lì con i Corridoi ha voluto dire mettersi in gioco fino in fondo. Questo lavoro mi ha fatto capire l’importanza di costruire dal basso le relazioni con i soggetti del territorio».
Dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento verso i rifugiati e i luoghi da cui iniziano il loro viaggio?
«Spesso si dimentica che questi mondi oltre frontiera sono mondi vivi: dobbiamo superare la nostra impostazione eurocentrica di voler arrivare lì, fare l’intervento senza mettersi a livello paritario con chi lavora nel territorio... Fare i Corridoi significa anche mettersi in gioco nella conoscenza di quelle società, con un punto di vista direi umile. Da qui nasce anche la mia idea che i Corridoi siano uno strumento che dà dignità a persone che si trovano in situazioni di vulnerabilità, ma che in questa situazione esercitano una libertà di scelta e di contrattazione ad esempio sul fatto che cristiani e musulmani dovranno trovarsi insieme nelle strutture di accoglienza, questo li obbliga a mettersi in discussione, a mettere insieme quei frammenti che in Libano rimangono separati. Cerchiamo di coniugare già nei colloqui l’elemento della responsabilità da parte loro, e la nostra nell’accogliere. Si tratta di un terreno di sperimentazione per una pratica paritaria che è molto diversa dalla forma classica dell’accoglienza».
Un’immagine che hai usato in occasione degli arrivi del 3 maggio è quella della valigia, in cui mettono ricordi e oggetti cari, esattamente come faremmo noi...
«Questo è un punto fondamentale: noi abbiamo un’idea un po’ “romantica” delle migrazioni.
Andando al di là della frontiera, uscendo dalla dimensione emergenziale che si ha quando si sta nella frontiera (come a Lampedusa, con gli sbarchi che costruiscono un palcoscenico su cui si muovono tante cose) si incontra una dimensione che fa capire le loro paure, come quando chiedono se in Italia si può pregare e fare il ramadan, se è vero che facciamo mangiare solo carne di maiale... hanno le stesse paure che abbiamo noi rispetto a loro...
Lavorare oltre frontiera ti fa vedere la dignità di queste persone nel percorso migratorio, questo permette di progettare l’accoglienza già prima che arrivino...».
Ma qual è la loro situazione?
«Molti vorrebbero tornare in Siria o in Iraq, ma la situazione di guerra e miseria obbliga ad andarsene; la situazione in Libano si sta complicando sempre più per molte famiglie, stanno finendo i soldi. Le reti parentali (che sono l’unica struttura di sostegno per i siriani) funzionano se effettive e ampie, ma per chi è da solo la situazione è davvero difficile, il Libano non ha alcuna forma di assistenza, anche l’Unhcr non riesce a coprire i bisogni di milioni di persone».
E per quanto riguarda le donne?
«Le donne hanno tutto sulle loro spalle, più di altri soffrono sul terreno della migrazione, ma al tempo stesso sono i soggetti che vedono il percorso migratorio con elementi di autonomizzazione, rottura con il controllo patriarcale, anche in forme conflittuali, che però con il tempo potrebbero determinare processi di emancipazione rispetto a situazioni di imposizione (matrimonio imposto, controllo del corpo).
Per quanto ho visto, soprattutto le siriane sono molto più intraprendenti degli uomini, nell’imparare la lingua, attivarsi per il lavoro, e io vedo in questo una possibilità di autonomizzarsi dalle forme sociali patriarcali tradizionali.
Stiamo riuscendo a portare in Italia anche donne sole con bambini, che vogliono costruirsi una vita diversa da quella che hanno vissuto finora...
Un’immagine che ho visto di recente è quella di una donna che attraversava il filo spinato, che le tirava via il velo... in questa immagine vedo tutta la contraddizione e tensione di processi che possono portare a una maggiore emancipazione e autonomia».
Quali differenze vedi tra la situazione in Libano e quella che affrontate a Lampedusa ormai da due anni?
«Sono due situazioni completamente diverse. Negli ultimi mesi sono diventato critico rispetto a chi definisce Lampedusa l’isola dell’accoglienza: è vero, è l’isola della salvezza, ma anche dell’hotspot... una nazione che utilizza questo criterio non è una nazione che accoglie, ma che categorizza.
C’è un’enorme differenza fra i bambini che giocavano a Fiumicino, accolti con giochi e colori, rifocillati, rassicurati dagli operatori, e quelli che arrivano a Lampedusa, stremati, pigiati sul bus dopo 20-30 minuti di attesa (senza nemmeno la possibilità di andare al bagno), portati all’hotspot, dove i loro genitori vengono classificati e fotografati velocemente e incasellati... Bambini che finiscono in grandi centri insieme agli adulti... pensiamo ai minori non accompagnati, cui non viene garantita alcuna tutela.
C’è un enorme scarto tra le due situazioni, e mi fa molto male pensare che molti di questi ragazzi vengono arbitrariamente inseriti nella casella del migrante economico, con il foglio di via che intima loro di lasciare l’Italia entro 7 giorni: significa entrare in un percorso di clandestinità.
Sottolineerei molto la differenza fra l’accoglienza operata dalla società civile, con i Corridoi umanitari, e il meccanismo della frontiera che si ritrova a Lampedusa...».
Tu la frontiera in questi anni l’hai disegnata in molte forme, ed è proprio attraverso i tuoi disegni che molti ti hanno conosciuto: come nasce la tua vena artistica?
«Lampedusa mi ha messo a posto qualcosa dentro; io ho sempre disegnato, ma non ho mai avuto un tratto comune, uno stile; qui ho trovato una modalità che mi ha dato la possibilità di fare quasi 200 disegni in due anni...
Ho iniziato a disegnare a Lampedusa quasi per caso, con dei colori dell’Ikea che avevamo preso quasi più per arredare: con quei colori ho cominciato a trovare una continuità fra il mio tratto e un tratto un po’ rabbioso, inquieto, fra immagini che nella maggior parte esprimono una grande disperazione e dolore e questi colori vivi che sono i colori di Lampedusa, del suo mare, il sole...
Questo è il primo aspetto, la necessità di esprimere le emozioni che mi attraversavano; ma volevo anche esprimere qualcosa del nostro lavoro in termini un po’ diversi da quella forma un po’ pornografica della frontiera che è quella dell’utilizzo delle emozioni forti anche per venderle...».
Hai spesso citato e criticato l’immagine simbolica della frontiera: che cosa significa per te?
«Io critico questa continua ricerca dei media che trasformano la frontiera in un palcoscenico emozionale, senza metterci la pratica, il lavoro degli operatori sociali, ad esempio, un aspetto fondamentale per me...
Uno dei terreni su cui voglio lavorare è proprio quello di smontare la frontiera, la “frontiera” non è solo Lampedusa, ma il Libano, il Marocco dove abbiamo portato il nostro lavoro... descrivere una continuità fra il lavoro sociale, il modo di leggere la realtà e il ritorno del lavoro fatto. Noi non siamo quelli che arrivano, fanno le foto o i video e poi se ne vanno, io continuo a fare i disegni da Lampedusa, poi attraverso questi disegni, girando per l’Italia, racconto la frontiera. Vendo le copie (non gli originali) attraverso cui possiamo finanziare una borsa di studio per un ragazzo di Lampedusa e le attività del molo per i migranti che arrivano».