Soup for Syria
17 maggio 2016
Presentato al Salone del libro di Torino un ricettario nato nei campi profughi del Libano, nel tentativo di aiutare i rifugiati siriani. L’intervista all’autrice, Barbara Abdeni Massaad
«Che sia in tempo di pace o in periodi di crisi, riunire la famiglia e gli amici attorno alla tavola e condividere un pasto è una delle più belle celebrazioni della vita che si possano immaginare. E non c’è niente che scaldi il cuore e il corpo come una scodella di zuppa bollente».
Soup for Syria, p. 47
Barbara Abdeni Massaad è nata a Beirut, in Libano. A dieci anni la sua famiglia decise di trasferirsi negli Stati Uniti – il padre, ritrattista, aprì un «Kebabs and Things» in Florida – ma otto anni dopo la nostalgia di casa obbligò tutti quanti al rientro. Oggi Barbara ha 46 anni, vive a Beirut ed è una «food writer» affermata. Soup for Syria è il suo quarto libro, ma chi lo compra non acquista soltanto un manuale di ricette. Perché «il movente», questa volta, è umanitario: devolvere i proventi all’Unhcr, l’Agenzia delle nazioni Unite per i Rifugiati, per aiutare i siriani resi profughi dalla guerra. Nel mondo anglofono Soup for Syria è in libreria dal 2015. Curata dalla torinese Edt, l’edizione italiana è stata presentata lo scorso 12 maggio al Salone del libro di Torino, nel corso di una «cena solidale» organizzata da Eataly al Lingotto. Ne abbiamo parlato con l’autrice, raggiunta per telefono sulla via dell’aeroporto.
Come nasce questo libro?
«Sono una fotografa, una scrittrice, una food-writer libanese. La guerra in Siria è scoppiata nel 2011 e in Libano la “crisi dei rifugiati”, come la chiamano, è cominciata tanti anni fa. Un giorno c’era brutto tempo, a Beirut faceva freddo, e pensavo a quei bambini, a pochi chilometri da casa mia, nella valle della Bekaa. Decisi di rendere visita a quel campo profughi. Non pensavo che avrei scritto un libro. Volevo soltanto toccare con mano, divenire cosciente del problema, nella sua concretezza. Cominciai ad andarci regolarmente. Facevo foto, perché è il mio mestiere, ma soprattutto conoscevo le persone, ci diventavo amica, instauravo dei rapporti. Dopo venne l’idea di cucinare e da lì l’idea di fare qualcosa di più concreto, per raccogliere fondi e risorse, per dare veramente una mano a quelle persone. Sono una fotografa e mi venne in mente di comporre un libro che mostrasse i rifugiati nel loro ambiente quotidiano, ma volevo una testimonianza che potesse al contempo raccogliere fondi. Così pensai alla cucina. Immagini e cucina, il mio lavoro a beneficio di qualcun altro. Ho scelto Unhcr per allargare il raggio della mia iniziativa, per non fermarmi a un solo campo profughi».
Soup for Syria è più un gesto di solidarietà o un libro di ricette?
«È entrambi. Tengo però a specificare che chi lo compra non fa solamente un gesto di solidarietà, acquista un vero e proprio libro di cucina. Le ottanta ricette raccolte da tutto il mondo sono buonissime: sono tutte zuppe, molto gustose e molto semplici da realizzare. All’interno si trovano foto e immagini scattate nei campi profughi, la ragione sociale del libro è parte della sua trama, non rimane sullo sfondo. Ma il libro è un manuale di cucina a tutti gli effetti, utile a chi vuole imparare a cucinare zuppe straniere, a partire da ricette di chef molto importanti. Diversi amici cuochi, alcuni internazionalmente rinomati, come Anthony Bourdain, Enrico Crippa, Yotam Ottolenghi, Alice Waters, si sono prestati a partecipare al volume, a contribuire alla sua fama, alla sua diffusione internazionale e dunque alla sua missione».
Dunque il libro alterna piatti e volti. Quelle facce sono i beneficiari dei proventi del libro; persone vere, cui, con il pensiero, va il piatto di zuppa che libro alla mano stiamo cucinando nelle nostre case. Qual è l’immagine, il volto che rimane nella mente di chi abbia visitato un campo profughi?
«I bambini. Senza dubbio i bambini. Sono come tutti gli altri bambini del mondo: sono allegri. Giocano, vivono, sono bambini, ma in condizioni terribili, che nessuno accetterebbe per i propri figli. Penso alla fame, al freddo che patiscono. Spesso gli adulti del campo sono disperati, e con i loro piccoli non hanno la pazienza necessaria».
Le faccio una domanda difficile, sulla relazione che intercorre tra il movimento Slow Food e la solidarietà. Prima che conoscessi i fini umanitari del libro, confesso che il titolo «Una zuppa per la Siria» mi aveva suscitato più di una perplessità. Lei è una delle fondatrici di Slow Food in Libano. Come si presenta questo movimento-azienda nei paesi in via di sviluppo? Quali criticità o contraddizioni deve affrontare?
«Per quanto riguarda me e il mio lavoro in Libano, Slow Food ha avuto una grande influenza in quello che ho fatto e sono riuscita a fare, posso dire tranquillamente che mi ha cambiato la vita. Ho avuto la possibilità di crescere come food-writer insieme a persone provenienti da tutto il mondo: diverse, ma con cui ho potuto condividere idee e valori. Alcune intuizioni sono state messe in pratica, altre ancora no, ma abbiamo messo in comune, e nulla è perfetto. Finché esisterà, continuerò a essere un membro attivo di Slow Food. Sono molto contenta che l’edizione italiana del libro sia nata e sia stata presentata a Torino, dove ritorno puntualmente ogni anno dal 2006. Ammiro il lavoro che a partire dal Piemonte è stato fatto. Da qui Slow Food è partito, oggi è una macchina gigante che ha bisogno di avere presidi di lavoro indipendenti in ogni regione del mondo. Il Libano è stato il primo paese del Medioriente ad avviare una rete di mercato contadino locale. A Beirut siamo attivi dal 2004 ma quello di Slow Food è un metodo di sviluppo che richiede tempo, perché passa dall’educazione delle persone e non sempre è questa la priorità della politica».
Qual è la percezione della crisi migratoria in Libano? Quali le somiglianze quali le differenza con il pubblico dibattito europeo?
«La situazione è completamente diversa. Il Libano ha una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, ma ospita sul suo territorio un milione e mezzo di rifugiati. Prodotti dalla guerra in Siria, i due fenomeni, libanese ed europeo, non sono nemmeno comparabili. Ovviamente il nostro paese si trova in una brutta situazione dal punto di vista economico. Ma questo non ci autorizza ad ignorare quelle persone. È una questione di empatia: quello che accade agli altri un giorno può capitare a te».