Trump e i suoi sostenitori
11 maggio 2016
Gli slogan sopra le righe non gli hanno impedito di affermarsi in varie tappe della corsa all’elezione di novembre
Impossibile, impensabile. Prima o poi le varie «eminenze grigie» del partito Repubblicano lo «faranno fuori». Un giorno, lo stesso elettorato conservatore si ribellerà di fronte a certe sue affermazioni estreme. Queste cose le sento da mesi parlando con amici americani e le ho ripetute anch’io. Invece oggi Donald Trump è il presumibile candidato del suo partito. Per i militanti del Partito democratico sono buone notizie, almeno a breve termine, perché quasi tutti i sondaggi al momento vedono Hillary Clinton, probabile candidata, con un forte vantaggio nelle elezioni presidenziali. Il giorno della verità, l’8 novembre, potrebbe ancora portare delle sorprese ma con una affermazione forte della Clinton, i progressisti, elettori non affiliati e i repubblicani moderati dovrebbero cercare di capire il fenomeno di Trump e dei suoi entusiasti e ardenti sostenitori. C’è qualcosa che è andato storto nel nostro Paese e il problema dovrebbe essere affrontato da tutti gli americani.
Da mesi i giornalisti riportano le affermazioni stravaganti, irrealistiche e diffamatorie del miliardario newyorkese, che vengono accolte con soddisfazione, consenso e un certo atteggiamento di trionfalismo dai suoi seguaci. Costruire un muro che percorre tutto il confine con il Messico e far pagare i messicani per la costruzione? Proibire l’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti? Far pagare, con sanzioni civili o penali, le donne che decidono di interrompere la gravidanza? Come mai queste idee possono essere applaudite con un gioioso ma anche violento fervore da tanti cittadini di un Paese che da sempre si è autocelebrato per la sua difesa della libertà e la sua solida democrazia funzionante? Opinionisti e studiosi avranno lavoro per anni nel cercare di spiegarci tutto ciò, ma vorrei tentare di avanzare alcune considerazioni.
Una spiegazione immediata sta nella rabbia, paura e disorientamento provato da molti, in particolare, ma non solo, dai maschi bianchi. Un’economia imprevedibile e in forte transizione non aiuta la loro tranquillità. Questi si sentono messi da parte da una élite, in parte immaginaria, nei corridoi del potere a Washington D.C. e nei saloni lussuosi dei ricchi progressisti a San Francisco e Boston. Un simile distacco fra una gran parte dell’elettorato e i loro politici «professionali» e autoreferenziali si trova anche in Inghilterra e in molti paesi dell’Europa continentale ma da noi questo distacco sta crescendo fortemente.
Negli Stati Uniti, come in tutti i Paesi, ci sono stati sempre conservatori e progressisti ma c’erano almeno delle idee e dei valori e principi di base condivisi da una grande parte della popolazione. Anche negli anni ’60 e ’70, anni tumultuosi con duri scontri sui diritti civili per gli afroamericani o sulla guerra in Vietnam, e durante il mandato di Richard Nixon (1969-1974), un presidente con un forte deficit di senso morale e un rapporto ondivago con la realtà, nel Congresso era possibile portare avanti il lavoro di governo. I Repubblicani avevano delle priorità diverse da quelle dei Democratici e una visione diversa della nazione, ma c’era, a mio avviso, da tutte e due le parti, almeno il riconoscimento di un’identità nazionale condivisa, di una tradizione di libertà e giustizia da portare avanti. Non mi pare che quella condivisione esista più e questo è grave.
In un articolo recente della storica rivista progressista The Nation (ed. online del 6 maggio), tre studiosi si chiedono: siamo alla fine del sistema bipartitico? Il giornalista Rick Perlstein nota: «Donald Trump ha convinto milioni dei suoi sostenitori a credere che un establishment corrotto – una cospirazione fatta da politici, dai media e dalle grandi aziende – ha rubato la loro dote naturale». Per chi ha studiato o si ricorda la storia europea, queste parole hanno una risonanza fortemente inquietante. A rendere ancora più chiaro il paragone con le tecniche di Hitler, Rowan Williams, già arcivescovo di Canterbury, scrive in un articolo recente per il periodico progressista britannico The New Statesman (28 aprile- 5 maggio) delle parole agghiaccianti: «La straordinaria miscela di farsa e minaccia nella campagna di Donald Trump è un potente distillato di tutto ciò: una politica teatrale, disgiunta dal realismo, dalla pazienza e dalla solidarietà umana che porta in superficie i veleni nascosti di un intero sistema e mette a rischio tutta la sua funzionalità e razionalità».
Noi progressisti americani dobbiamo accettare la validità dell’analisi di Williams sui veleni nascosti ma la contestazione ci fa molto male. Come siamo contenti noi quando possiamo portare avanti il sogno della nostra nazione come la «città sopra il monte», un esempio per le altre nazioni. Come ci piace ricordare le coraggiose vittorie nella battaglia per i diritti civili. Come eravamo contenti e orgogliosi nel novembre 2008 di poter dire insieme al nostro giovane presidente afroamericano: «Yes We Can!».
Secondo me, possiamo e dobbiamo continuare a ricordare e celebrare queste e altre vittorie della giustizia e della libertà, ma abbiamo anche il dovere di chiederci seriamente: perché tanti di nostri connazionali vivono un forte e profondo senso di disagio? Perché sentono di non avere più un posto di rispetto nel loro paese? Non ci sarà un modo, dopo le elezioni di novembre, per noi cittadini, forse anche insieme alle nostre chiese e altre comunità religiose, di chiedere chiaramente ai nostri politici di cercare nuovi approcci e nuove occasioni di dialogo con chi si siede dall’altra parte dell’aula? Un governo paralizzato da rancore e sfiducia, come l’abbiamo visto negli Stati Uniti negli ultimi anni, non giova agli interessi della nazione. Una società avvelenata dai sospetti, dalle incomprensioni e dalla rabbia non giova al benessere psicologico né allo sviluppo morale dei suoi membri.