Un canale di silenzio tra Italia e Azerbaijan
16 febbraio 2016
I lavori per il Corridoio meridionale del gas, che dovrebbe connettere Azerbaijan e Italia e fornire gas a tutta Europa, non sono ancora iniziati, ma i punti critici sono già moltissimi.
Il 2016 dovrebbe essere l’anno di avvio dei lavori per il Corridoio meridionale del gas, un progetto promosso dall’Unione europea per collegare la costa occidentale del Mar Caspio con la Puglia attraverso un gasdotto lungo 3.500 km.
Nelle intenzioni dei promotori, l’opera attraverserà sei Paesi: Azerbaijan, Georgia, Turchia, Grecia, Albania e infine l’Italia. «Per ora – racconta Elena Gerebizza, dell’associazione Re:common – il gasdotto esiste però solo nella fantasia dei politici europei».
Protagonista assoluto dell’opera è l’Azerbaijan di İlham Əliyev, presidente dal 2003 e dittatore di fatto, che cerca una legittimazione sempre più forte in Occidente proponendosi come punto di riferimento per il mercato energetico europeo, che sta cercando di allontanarsi dalla propria storica dipendenza dalla direttrice che parte dalla Russia e attraversa l’Ucraina, una rotta divenuta ormai quasi impraticabile a causa del conflitto che oppone Mosca e Kiev dall’inizio del 2014.
In realtà l’Azerbaijan ha già un ruolo di primissimo piano nel mercato energetico europeo, e in particolare italiano, da oltre dieci anni: nessuno fornisce tanto petrolio all’Italia quanto Baku. Il nostro Paese, infatti, acquista dalla repubblica caucasica oltre il 17% del greggio necessario per il fabbisogno nazionale. Più in generale, l’Italia è il primo partner commerciale del paese, dal momento che assorbe circa il 20% delle esportazioni azere, composte quasi unicamente da idrocarburi ma che guarda con molto interesse, come detto, al mercato del gas.
Per raccontare questa opera, e metterne in luce soprattutto gli aspetti critici, l’associazione Re:common insieme al network europeo Counter Balance e all’inglese Platform ha recentemente pubblicato il documentario web Walking the line – Sul filo del rasoio, storia di una grande opera europea.
Secondo il documentario, i problemi di questo progetto sono almeno due: da un lato la dipendenza energetica europea, fondata sulle fonti fossili, mai davvero messa in discussione nonostante molte dichiarazioni in quel senso, dall’altra gli attori che si propongono come fornitori per colmare il fabbisogno energetico della nostra parte di mondo e che hanno un rapporto difficile con il rispetto dei diritti umani. Mentre fino alla prima metà dello scorso decennio il canale principale era quello con Mosca, oggi l’Azerbaijan sta rapidamente acquisendo un ruolo sempre più forte.
Le contraddizioni europee
La volontà europea di investire oltre 35 miliardi di euro per il gas azero mette a nudo alcune tra le più stridenti contraddizioni di Bruxelles: quest’opera dovrebbe incrementare la fornitura energetica dell’Unione europea di circa il 2,5%, ma la domanda di gas nel nostro continente è scesa del 9% negli ultimi dieci anni. Inoltre, finisce in secondo piano la condanna emessa dalla stessa Unione nei confronti del clima di dura repressione dell’Azerbaijan nei confronti di qualsiasi forma di opposizione.
Negli ultimi dieci anni, infatti, il regime azero ha irrigidito sempre di più le proprie posizioni e i propri comportamenti, e attualmente tra gli 80 e i 100 prigionieri politici si trovano dietro le sbarre nel Paese, un numero superiore a quello di Russia e Bielorussia messi insieme.
Inoltre, oltre a perseguitare gli oppositori, il regime di Əliyev ha introdotto regole sempre più restrittive e arbitrarie per la registrazione e il finanziamento delle organizzazioni della società civile.
Secondo Elena Gerebizza, «è un paese dove le libertà civili praticamente non esistono. È una democrazia sulla carta, ma nella pratica è un governo autoritario nel quale c'è una dinastia al potere da quando la repubblica si è staccata dall'ex Unione Sovietica e dove le persone non hanno nessuno spazio per esprimere la propria volontà».
Trascinati a fondo
Nei rapporti di molte organizzazioni per i diritti umani, da Amnesty International a Radio Free Europe, emerge l’impatto negativo che l’accesso al mercato dei combustibili fossili ha avuto sulla situazione politica dell’Azerbaijan: il crescente afflusso di capitali esteri, infatti, ha consolidato il potere di Əliyev e al tempo stesso non ha avuto ricadute positive per la popolazione. Secondo i critici, infatti, il presidente avrebbe incanalato gran parte della ricchezza in conti offshore in paradisi fiscali come Panama.
Il problema, inoltre, è che queste critiche non possono essere esplicitate nel Paese. Rasul Jafarov, un oppositore arrestato e condannato nell’aprile del 2015 propri per aver criticato la gestione delle ricchezze pubbliche da parte di Əliyev, racconta che «prima che i ricavi da petrolio e gas riguardassero l’Azerbaijan avevamo più democrazia e libertà. Il punto di svolta è stato nel 2005, quando l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan è stato completato e ha cominciato a funzionare. Da quel momento in poi la situazione è andata peggiorando, sia per i giornalisti che vengono arrestati, sia per i prigionieri politici, ma anche per esempio per i fedeli di religioni che non si schierano dalla parte di Əliyev. Se critichi il governo – racconta Jafarov – puoi essere facilmente arrestato e perseguito per accuse costruite ad hoc».
Ancora Elena Gerebizza, che per realizzare il documentario Walking the Line si è recata in Azerbaijan, racconta che «il partito al potere vince sempre le elezioni con il 90% dei voti, e tutte le voci contrarie, che non sono neanche voci estremamente radicali, ma sono semplicemente individui, organizzazioni, associazioni, avvocati, giornalisti, che cercano di aprire una discussione vera su quello che sta avvenendo nel paese o su come vengono utilizzate le risorse del petrolio, vengono sistematicamente messe a tacere. Questa dinastia al potere diventa sempre più ricca, e allunga i propri tentacoli in diverse direzioni utilizzando società fittizie, paradisi fiscali, per riportare la ricchezza sempre alla cerchia di persone al potere, mentre il resto della popolazione vive in situazioni di povertà a volte anche estrema».
Ancora al palo
In realtà è difficile che i lavori partano veramente nell’estate del 2016, come da programma, perché i problemi lungo il percorso che va dal Caspio alla Puglia sono moltissimi.
In Italia, in particolare, il problema principale riguarda le autorizzazioni e la documentazione che Trans–Adriatic Pipeline AG, la società incaricata della realizzazione del progetto, deve fornire. Quando TapAG, nel 2014, aveva richiesto le autorizzazioni a procedere, il ministero dell’Ambiente aveva imposto 58 prescrizioni ambientali e territoriali, legate soprattutto agli impatti di un’opera come quella. Per contro, tuttavia, i vertici politici europei e lo stesso presidente del Consiglio italiano sembrano non avere dubbi sulla possibilità di realizzare il gasdotto. Allo stesso modo, inoltre, sembrano pensarla anche le istituzioni finanziarie europee.
Secondo Elena Gerebizza, «l'operazione che le banche europee stanno cercando di fare è quella di iniziare e mettere i soldi e dare garanzie agli investitori privati per cercare in ogni caso di far partire quest'opera, anche se economicamente non ha senso, anche se sappiamo che questi soldi non torneranno indietro, anche se sappiamo che alla fine se quest'opera rimane incompiuta o se andrà a costare un prezzo esorbitante, che quindi in qualche modo dovrà rientrare nell'investimento attraverso il prezzo del gas, per cui non sarà così economico come loro ci dicono oggi. Inoltre oggi il prezzo del gas in Europa è calato tantissimo. Quello che ci viene detto, in modo opaco, è che siamo di fronte a un’opera privata che verrà pagata dal settore pubblico».
Una questione di sicurezza?
Di fronte a una situazione come questa, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo ha giustificato il proprio impegno economico nel progetto affermando che «avrà un impatto positivo, introducendo standard sociali e ambientali che sono in linea con le pratiche internazionali più avanzate». Tuttavia, la storia recente del paese, fatta di grandi capitali in ingresso, e quella dell’intera regione mediorientale e dell’Asia centrale, non permettono affatto di pensare al petrolio e al gas come strumenti di pace, sicurezza e democrazia.
Quanti più miliardi di euro verranno incanalati verso il settore delle fonti energetiche fossili azere, quanta più repressione potranno aspettarsi i critici del da parte dei rappresentanti pubblici.
L’Unione europea e le istituzioni che stanno investendo sul gasdotto che collegherà Azerbaijan e Italia sembrano per il momento nascondersi dietro dichiarazioni che parlano di “sicurezza energetica”, ma l’impressione è che il momento delle scelte sia sempre più vicino: saremo in grado, come Europa, di smettere di chiudere gli occhi su quanto avviene sulle coste del Mar Caspio?