Schewitzer profeta dell’interculturalità
13 gennaio 2016
La rubrica «Essere chiesa insieme» andata in onda domenica 10 gennaio 2016
Non sono in molti a ricordare Albert Schweitzer. Fu una delle più alte figure morali del Novecento. Tra l’altro, premio Nobel per la pace nel 1952 per la sua attività di medico e di missionario svolta a Lambaréné, nel Gabon di oggi, all’epoca regione settentrionale del Congo.
Una famosa biografia, molto popolare negli anni ’50, lo definiva «il medico della giungla»: immagine suggestiva, rafforzata dall’esotismo di una foto che lo ritraeva con un caschetto coloniale e dal vezzo di grandi baffi a manubrio secondo la moda del tempo. Ma tutto questo è riduttivo. Schweitzer fu anche un pastore protestante, un teologo e un grande organista in grado di attirare ai suoi concerti un folto pubblico che con il proprio biglietto contribuiva a finanziare le attività che egli svolgeva in Africa.
Gli anni di Schweitzer furono quelli del colonialismo, forse del peggiore colonialismo, quello che ha contribuito a fare dell’Africa – il continente più ricco di materie prime al mondo – quello oggi più povero e dipendente dagli investimenti stranieri. Egli ne era consapevole quando affermava che «I popoli primitivi o semiprimitivi perdono l’indipendenza nel momento in cui arriva la prima imbarcazione di un bianco con cipria o rhum, sale o stoffe. In quel momento – scrisse – comincia a rovesciarsi la situazione sociale, politica ed economica. I capi si mettono a vendere i loro sudditi come se fossero degli oggetti…». Schweitzer fu certamente un uomo del suo tempo, con i limiti del suo tempo e sarebbe anacronistico farne un’icona «no global». Ma aveva chiara la coscienza del debito morale e materiale che l’Occidente di cui egli era figlio stava contraendo con l’Africa, sfruttandola, rapinando le sue materie prime, distruggendo il suo tessuto sociale tradizionale.
Schweitzer, figlio della buona borghesia e della migliore cultura europea, aveva ben chiaro che l’Africa avrebbe dovuto cercare una sua specifica strada economica e politica. Ma egli non era né un economista né uno statista: era un uomo di fede che voleva mettere in pratica gli insegnamenti evangelici. E lo fece soprattutto curando migliaia di persone.
Quelle di Schweitzer, però, non erano solo terapie, erano incontri. L’ospedale che egli concepì non fu mai la fotocopia sbiadita dei nosocomi europei ma un luogo che rispettava i tempi, la cultura, le sensibilità degli africani. L’ospedale di Lamberenè accoglieva malati che venivano da villaggi a centinaia di chilometri e, insieme a loro, i parenti che li accompagnavano. E talora i loro animali. Era un modo per porsi in relazione alla cultura dei malati, alla cultura degli altri, a una cultura «altra» rispetto a quella di un umanista europeo.
In questo senso, senza saperlo e senza costruirci alcuna teoria, Schweitzer fu maestro di quella che oggi chiamiamo interculturalità. Parola tecnica, persino difficile ma che esprime un concetto semplice: l’incontro e lo scambio tra persone di diverse tradizioni culturali. Benché venga considerata un sinonimo, essa è cosa ben diversa dalla multiculturalità. Questa si limita a constatare che in una società esistono persone che esprimono culture differenti, ciascuna delle quale basta a se stessa. Al contrario per interculturalità si intende un processo di incontro tra culture diverse che, dialogando tra loro, producono una situazione dinamica, in altre parole una relazione.
Su questa relazione – sulla sfida del percorso insieme a uomini e donne di un’altra tradizione e di un’altra cultura – Schweitzer scommise tutta la sua vita.
«Camminiamo come nella semioscurità e nessuno riesce a distinguere bene i tratti dei compagni – scrisse – ma qualche volta un avvenimento in comune, una parola scambiata, ce li illumina come un lampo e li vediamo come sono veramente. Poi, per un lungo periodo, riprendiamo la strada insieme, al buio, e tentiamo di immaginarci i loro tratti».
Ecco una bella immagine che descrive la ricchezza, il fascino ma anche la sfida di una società interculturale.