Giovani, musulmane, tra Nord e Sud del Mediterraneo
24 novembre 2015
«Dialogo e integrazione sono le parole su cui puntare per il futuro». Intervista a Debora Spini
«Giovani musulmane in Italia. Percorsi biografici e pratiche quotidiane» è il titolo della pubblicazione curata da Ivana Acocella e Renata Pepicelli, parte di una ricerca scientifica «tra la sponda nord e quella sud del Mediterraneo», che riguarda le giovani donne musulmane. Abbiamo intervistato Debora Spini, professoressa di filosofia politica alla Syracuse University di Firenze e vicepresidente del Forum per i problemi della Pace e della Guerra di Firenze che col sostegno dei Fondi Otto per Mille ha promosso la ricerca. Ci siamo fatti raccontare i risultati raggiunti e le abbiamo chiesto una lettura della crisi internazionale in atto, aggravata dagli attentati di Parigi del 13 novembre.
Quali ricerche avete svolto?
«Abbiamo portato avanti due ricerche gemelle: la prima sulla sponda nord del Mediterraneo, la seconda nella sponda sud. La domanda da cui siamo partiti è questa: come le giovani musulmane, figlie dell’immigrazione (nella sponda nord) riescono a combinare identità religiosa e identità di genere nel loro percorso di costruzione identitaria? Nella sponda sud invece ci siamo chiesti come giovani donne attiviste in Tunisia, Marocco ed Egitto combinassero attivismo politico, femminismo, e identità religiosa».
Quali risultati sono emersi?
«Per la sponda sud emergono risultati molto diversi tra loro, a seconda che si consideri la Tunisia, il Marocco o l’Egitto. In Tunisia per esempio il progetto di modernizzazione talvolta significa occidentalizzazione, il che consente di mettere in gioco per le nostre ricercatrici categorie d’analisi “postcoloniali” per comprendere ciò che accade. Non c’è dubbio che ci siano tendenze simili tra la sponda nord e quella sud del Mediterraneo; in Italia, per fare un altro esempio della varietà possibile di processi identitari, le giovani donne bengalesi e pachistane sembrano più inclini ad assumere l’identità che arriva loro dalle famiglie d’origine; mentre le marocchine sono creative e innovative nel combinare “pezzi di identità” diversi. Questa necessità di combinare e scombinare le determinazioni identitarie ricevute è senz’altro un elemento comune a tutte».
Come inquadrare gli ultimi drammatici attentati di Parigi per chi, come lei, studia filosofia politica, e i processi di secolarizzazione e «post-secolarizzazione»?
«E’ fondamentale cercare di capire come la religione e il sistema identitario funzionino all’interno dei conflitti politici. Bisogna anche decodificare il discorso, oggi sempre più di moda, della “guerra di religione”, o peggio ancora, dello “scontro di civiltà”».
E come si smentisce la retorica della «guerra di religione» o dello «scontro di civiltà»?
1Con i fatti: i musulmani sono le prime vittime del fondamentalismo islamico. Il fondamentalismo è certo un problema per l’Occidente, ma ancor di più lo è per il Medio Oriente. Per quanto riguarda le nostre democrazie di sponda nord del Mediterraneo è quindi fondamentale continuare nel lavoro che abbiamo fatto, e che stiamo facendo: dialogo, inclusione e aprire le possibilità affinché tutti possano sentirsi cittadini, senza chiedere in cambio un’amputazione identitaria».
C’è una crisi politica profonda in atto?
«Si legge in filigrana una crisi della Modernità; e la crisi dell’attore principe della modernità politica, che è lo “stato territoriale nazionale”. Non è certo una novità dire che oggi in Medio Oriente si assiste alla crisi del modello di stato nazionale esportato dall’Europa; questa crisi si fa eclatante in Medio Oriente ma è in atto in molti altri contesti. Basti pensare al ritorno della violenza politica religiosamente motivata in India, per esempio. Questa crisi non è un problema solo nostro o solo loro: in questo momento nel mondo segnato dai processi di globalizzazione è necessario pensare a delle forme di governance sovranazionale che siano politiche e, si spera, democratiche. Un’Europa che non sia solo governance economica, ma che diventi politica è fondamentale».
Le identità delle giovani, nel nord e nel sud del Mediterraneo, è multipla e creativa. Il che significa che sia anche in un certo senso «faticosa»: come si complica il quadro a partire da quanto accaduto a Parigi con gli attacchi terrotistici?
«E’ interessante il dato appena emerso dalla ricerca: il modo in cui queste giovani donne hanno dovuto rapportarsi al contesto sociale dopo gli attacchi alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. L’imperativo di doversi sempre e comunque scusare, giustificarsi e fare professione di fede democratica e non fondamentalista è per loro un carico pesante da portare. Diventa urgente che nelle nostre democrazie avanzate queste identità giovani trovino una dimensione accogliente, perché anche loro sono vittime del discorso fondamentalista».
C’è chi oggi dà del «buonista» a chi continua a parlare di dialogo. E’ il dialogo una strada cieca?
«Dialogo e integrazioni sono le parole su cui puntare per il futuro. Le accuse di buonismo lasciano il tempo che trovano. E’ molto più facile lasciarsi andare all’onda emotiva del momento, pensare che basti erigere muri per risolvere i problemi. Si sa bene però che le “identità muro” non fanno altro che rinfocolare il conflitto. La strada del dialogo non significa scendere a patti sui valori della democrazia: anche perché, ed è bene ricordarselo, i musulmani che vivono nelle democrazie europee hanno bisogno dei valori democratici, tanto quanto tutti gli altri cittadini. L’islam europeo sa e vuole che i valori democratici siano alla base del proprio presente e futuro. Insomma, da accuse come queste di buonismo non mi sento proprio particolarmente turbata».