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I protestanti sono appiattiti sulla cultura secolarizzata?

Commento del decano della Facoltà valdese di Teologia della lettera inviata al papa da alcuni membri del «Sinodo sulla famiglia»

L’episodio è di quelli che fanno la gioia dei «vaticanisti». Un gruppo di membri del Sinodo sulla famiglia, in corso in Vaticano, scrive una bella letterina al papa, riassumendo le preoccupazioni della parte che alcuni definiscono «conservatrice». Naturalmente, questo testo «riservato» atterra sul web e sui giornali, che lo presentano come un «giallo». Il thrilling non riguarda tanto l’autenticità del testo, quanto il fatto che alcuni presunti firmatari prendono le distanze, forse incoraggiati in questo da un certo disappunto della sala stampa vaticana. I contenuti teologici e pastorali della missiva non sono nuovi: cerchiamo di non innovare troppo, anzi, meglio se lasciamo tutto com’è. Dal punto di vista delle dinamiche interne al cattolicesimo romano, è più interessante un altro aspetto: la lettera manifesta il timore che i metodi di discussione siano orientati a «facilitare dei risultati predeterminati su importanti questioni controverse». Insomma, si teme un Sinodo «pilotato» e, quel che è peggio, non nel senso auspicato dai mittenti.

Fin qui, siamo di fronte a un frammento di un dibattito cattolico assai serrato, che le chiese evangeliche seguono con discrezione e rispetto. Un passo della lettera, tuttavia, suscita, nei lettori protestanti, un’attenzione più diretta. Secondo gli estensori, se le manovre che essi temono avessero successo, «ciò solleverà inevitabilmente questioni ancora più fondamentali su come la Chiesa (...) dovrebbe interpretare e applicare la Parola di Dio, le sue dottrine e le sue discipline ai cambiamenti nella cultura. Il collasso delle chiese protestanti liberali nell’epoca moderna, accelerato dal loro abbandono di elementi chiave della fede e della pratica cristiana in nome dell’adattamento pastorale, giustifica una grande cautela nelle nostre discussioni sinodali». Le chiese protestanti «liberali» sono quelle luterane, riformate, unite, anglicane, molte chiese metodiste, alcune chiese battiste. Esse sono al «collasso», perché hanno abbandonato «elementi chiave della fede [!] e della pratica cristiana». Ciò sarebbe accaduto «in nome dell’adattamento pastorale», espressione che, in un simile contesto, sembra indicare un atteggiamento servile nei confronti del secolarismo, il che, in realtà, tutto sarebbe tranne che «pastorale».

È bene essere in chiaro su alcuni punti.

1) Non si tratta di opinioni proprie soltanto di minoranze conservatrici. Nel recente passato, diversi autorevolissimi esponenti cattolici (compreso quello allora più autorevole tra tutti) si sono espressi in termini analoghi nella sostanza, anche se a volte meno drastiche nella forma. L’Ortodossia, le chiese evangelicali e anche molti settori protestanti «classici» del sud del mondo la pensano allo stesso modo.

2) Al giudizio teologico ed etico si unisce la valutazione «politica»: le nostre chiese sarebbero al «collasso»: perdono membri, sono ininfluenti nella società e dunque risultano poco interessanti come interlocutrici.

3) Un cristianesimo degno di tal nome dovrebbe, secondo questa analisi, adottare una linea opposta rispetto a quella delle chiese ritenute «liberali»: non adattarsi, abbandonando la verità dell’evangelo, bensì rendere una testimonianza coraggiosa che, alla fine, «pagherà» anche in termini di consenso.

Mentre, dunque, le nostre chiese protestanti salutano con speranza il clima ecumenico indubbiamente nuovo determinato dalla figura dell’attuale pontefice, esse devono constatare un certo sospetto e anche, sembra di poter dire, una stima non sempre elevatissima da parte di ampi settori del cristianesimo. È giusto prenderne atto e dispiacersene. Si tratta anche, però, di un’occasione per approfondire la riflessione sui passi compiuti, soprattutto negli ultimi decenni.

Molti protestanti (non so se tutti, ma lo spero) non li hanno intesi come «adattamento», meno ancora come appiattimento, bensì come tentativi di obbedire alla volontà di Dio in contesti nuovi. Che la Parola di Dio debba essere vissuta nella storia e che questo richieda cambiamenti etici, e anche nuove formulazioni dottrinali, non è una novità, credo nemmeno per coloro che condividono i giudizi pesanti sulle chiese della Riforma. Forse però non siamo stati abbastanza chiari nel dire che, per noi, determinate scelte intendono testimoniare le possibilità di vita generate dalla grazia di Dio. Per essere espliciti e brevi: noi cerchiamo di rendere testimonianza a Gesù, che era una persona per bene, ma non un perbenista. Non è detto, naturalmente, che tutti i tentativi operati in tal senso siano stati fedeli all’evangelo: essi sono sempre rivedibili, alla luce del confronto, anche ecumenico. Perché tale confronto sia autentico, tuttavia, è necessario che gli interlocutori si comprendano reciprocamente come cristiane e cristiani in ricerca. La patente di pavido collaborazionista di questa generazione incredula e perversa difficilmente aiuta chi la riceve e chi la affibbia a discutere in modo fraterno e spregiudicato.

La testimonianza a questo Gesù per bene, ma non perbenista, è un eccellente motivo per essere protestanti e, a mio parere, anche per diventarlo. Non è monopolio delle nostre chiese, certo: ma, a quanto pare, nemmeno si tratta di una convinzione così diffusa. Se le nostre chiese giocano la loro credibilità su questo, su un Gesù che infrange gli schemi, i «principi», le barriere create anche dalla religione; se è questo Gesù che ci invita a cambiare, e a rischiare, allora persino il «collasso» fa meno paura. Non è affatto detto che porre la questione in questi termini faciliti il confronto: anzi, alzando il profilo del dibattito, lo radicalizza. Ma appunto di questo si tratta, della radice, di ciò che conta: di Gesù e del suo messaggio, quello di sempre, vissuto oggi. Il Cristo di sempre, vissuto nel presente, è stato il programma della Riforma: forse non è un caso che alcuni si apprestino a celebrarla, e altri no.

Foto P. Romeo

 

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