Lettera al papa: un western all’italiana?
07 settembre 2015
Avrebbe potuto avere come titolo: «Dio perdona, il Sinodo no». Ma chi legge senza pregiudizi la lettera aperta inviata dal Sinodo valdese al papa non ha dubbi sul reale significato
Il Sinodo ha risposto alla richiesta di perdono formulata da papa Francesco nell'ormai celebre incontro di Torino. Lo ha fatto con una lettera, da fratelli e sorelle a un fratello, ponendosi in tal modo sulla stessa lunghezza d'onda scelta dal pontefice. Sottolineare la novità di un simile scambio sarebbe, dopo tutte le parole spese finora, persino banale; molto meglio, esserne profondamente grati e rimboccarsi immediatamente le maniche per proseguire un cammino in corso da molto tempo, ma che certo assume ora uno slancio, almeno per alcuni aspetti, inatteso. Ricostruiamo alcuni elementi del processo che lo ha determinato e del dibattito che lo ha seguito.
Un dibattito costruttivo. La discussione sinodale è stata orientata dalla bozza di quella che poi sarebbe stata la lettera, presentata dalla commissione d'esame. La grande maggioranza degli interventi ha colto lo spirito del testo: le parole del pontefice segnano, con ogni chiarezza e senza giri di parole, il ripudio di un passato atroce e l'inizio di un cammino nuovo. La risposta esprime la volontà di percorrere assieme questo itinerario, nella forza del perdono che Dio rivolge alla chiesa di Roma e, per quanto la riguarda, alla nostra. Qualcuno ha avanzato perplessità: non tanto sulle parole del papa, naturalmente, bensì a proposito di un possibile rischio di assimilazione, di smarrimento del profilo caratteristico di una chiesa protestante di fronte alla figura centrale della gerarchia romana. L'approvazione sinodale, a grandissima maggioranza, di un documento quasi identico alla bozza originaria, non intende rimuovere l'esigenza di un ecumenismo capace di distinguere l'entusiasmo dall'ingenuità. Piuttosto, manifesta la convinzione che l'unità che cerchiamo è tra chiese realmente diverse, come il protestantesimo ripete da sempre; la fede evangelica sa che, come qualcuno ha ritenuto di dover precisare, «il papa è pur sempre il papa»; sa, anche, che egli è cattolico-romano e non gli chiede di diventare protestante. Essa comprende, invece, che il massimo esponente della gerarchia cattolica si domanda dove possiamo andare insieme e raccoglie la sfida.
La chiesa cattolica non è una nemica. Nel corso del dibattito, è stato sottolineato che il compito che ci poniamo implica l'abbandono dell'idea che vede nell'altra chiesa il nemico. Per questo, a dire il vero, non ci sarebbe bisogno delle parole del papa, l'essenziale è già stato autorevolmente detto da qualcun altro; e non è da oggi che l'immaginario guerresco è stato eliminato dal dialogo tra le chiese. Va detto, però, che la contrapposizione al cattolicesimo ha lungamente costituito uno spazio entro il quale si sono modellati il pensiero e la prassi del protestantesimo italiano, sempre minoritario, prima perseguitato, poi discriminato, in seguito emarginato e tutt'ora piuttosto isolato nel paese. In passato, si è trattato, semplicemente, di un'ovvia necessità, imposta dai fatti. Se però qualcuno pensa di poter continuare a giocare soltanto di rimessa, egli o ella è in ritardo non solo sulla storia ma, soprattutto, sull'evangelo. La preoccupazione di veder scolorire le differenze (e anche le alternative) è quasi umoristica: se è per questo, ne rimangono anche troppe. Lo sa il papa, che lo ha anche detto, lo sappiamo noi. Si tratta semmai di chiarire se tali differenze impediscono un dialogo tra fratelli e sorelle nella fede, con tutto quanto queste parole, delle quali a volte non si misura la portata, implicano. Non sono pochi, in certi ambienti cattolici, ad essere scettici su questo; non mi pare il caso che la chiesa evangelica fornisca munizioni a quanti sono più papisti del papa.
La frase incriminata. «Questa nuova situazione non ci autorizza a sostituirci a quanti hanno pagato col sangue o con altri patimenti la loro testimonianza alla fede evangelica e perdonare al posto loro»: alcuni giornali hanno costruito su questa frase la trama di una specie di western all'italiana, che avrebbe potuto avere come titolo: Dio perdona, il Sinodo no. Chi legge senza pregiudizi il testo non può avere dubbi sul reale significato: il Sinodo non ha l'autorità del martire, non siede su uno scranno di giudice, dall'alto del quale far cadere parole a buon mercato sul sangue delle vittime e sull'umiltà di chi chiede perdono. Se il papa chiede perdono, con grande coraggio, a nome della sua chiesa, noi non possiamo identificarci direttamente con i perseguitati. Accogliere la richiesta di perdono significa, invece, aprire una nuova pagina, ponendoci insieme alle altre chiese nel segno della grazia di Dio. Tra gli altri, l'Avvenire, Enzo Bianchi su Repubblica, ma soprattutto il vescovo di Pinerolo, Piergiorgio De Bernardi, sull'Osservatore Romano, hanno colto con precisione l'intenzione del Sinodo.
I titoli che «sparavano» l'equivoco, però, hanno richiesto precisazioni, il che, di solito, non è indice di una comunicazione chiara e incisiva. Per diverse ragioni, chi scrive non è il più adatto a valutare se il punto indicato richiedesse una formulazione diversa. Una cosa è certa: l'assemblea di Torre Pellice ha inteso in primo luogo parlare al fratello Francesco, di fronte a Dio e su questo ha investito la propria attenzione. Non è detto che, se per un attimo ci si è dimenticati di possibili strumentalizzazioni giornalistiche, ciò sia solo un male. Potrebbe anche essere dipeso dalla concentrazione su ciò che conta realmente.
E ora? Il Sinodo ha anche ricevuto la visita del Presidente della Commissione per l'ecumenismo e il dialogo della Conferenza episcopale italiana, mons. Bruno Forte. Egli non ha pronunciato un semplice saluto, ma un denso intervento sul significato della concezione della chiesa nel cattolicesimo e nel protestantesimo. Non è questo il luogo per discutere le tesi di Forte, che riprendono ampiamente quelle più volte espresse dal suo antico maestro Walter Kasper. Il suo discorso, in ogni caso, si inserisce nel solco tracciato dall'incontro di Torino e aiuta a superare alcuni equivoci: ciò non significa censurare i problemi, bensì eliminare quelli falsi per poter affrontare i temi veri.
Che cosa è cambiato per il dialogo ecumenico in Italia, in questa estate così intensa? I nodi teologici restano identici, né potrebbe essere altrimenti. Certamente è cambiato il clima. Forse, in questa nuova atmosfera, presentare il profilo del cristianesimo evangelico nella sua inconfondibile peculiarità può richiedere uno sforzo ulteriore: quello di lasciarsi definitivamente (di nuovo: non iniziamo oggi!) alle spalle la rendita di posizione, peraltro un po' asfittica, che può derivare da accenti prevalentemente polemici, per presentare, in positivo, la novità liberante del messaggio evangelico, come la Riforma lo ha riscoperto. E più difficile? Se lo è, si tratta della difficoltà che abbiamo sempre desiderato poter affrontare.