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Raccontare il dolore provocando dolore

La viralità di una foto può banalizzarne l’orrore?

Riflettere su cosa si può e si deve fare per fermare la carneficina siriana è un'impegno primario per chi davvero si interessa delle sorti degli altri e dell'umanità. Allo stesso modo è essenziale chiedere a chi governa canali umanitari che permettano a chi scappa di non essere sfruttato e torturato, picchiato o di non morire nel viaggio verso una speranza. Ma per chi si occupa di informazione, e anche per chi ne è destinatario o per chi la diffonde attraverso i social network, resta legittimo domandarsi se pubblicare immagini forti come quella del bambino siriano sulla battigia sia il modo giusto di raccontare l'orrore che il mondo sta vivendo. Ne ho parlato con Arianna Ciccone, giornalista, direttrice del Festival del giornalismo di Perugia e curatrice di Valigia Blu.

Pubblicare o no i contenuti forti è certamente un atto che deve considerare la dignità delle persone coinvolte, come avvenne per le immagini delle decapitazioni dell'Is, sebbene in quel caso ci fosse il rischio aggravante di aiutare la propaganda terroristica.

Il problema non è solo se pubblicare un'immagine o no, ma anche dove sarà pubblicata. Sui social network per esempio, troverà un posto, ancor prima che nelle coscienze, in mezzo ai gattini e alle foto personali dei miei contatti; sui quotidiani on line sarà a fianco di pubblicità di qualunque tipo (ricordate la campagna “a voi sta bene?”) o a contenuti leggeri. Il problema dunque è anche come viene pubblicato un contenuto così forte: «l'aspetto virale rischia di banalizzare l'orrore e aumentare l'ipocrisia degli utenti» dice Ciccone.

Parlare di questo di fronte ai problemi che li hanno causati può sembrare “guardare il dito e non la luna”. Ma, forse, ogni tanto guardarci le dita può farci ricordare che abbiamo le mani sporche.

Ascolta l'intervista completa su Radio Beckwith

Foto "Azaz, Syria" by Christiaan Triebert - Flickr: Azaz, Syria. Licensed under CC BY 2.0 via Commons.