L’ immediatezza dello scrivere e la ricerca di uno stile
31 luglio 2015
Il caso di Primo Levi, che nasceva il 31 luglio 1919
Ogni tanto viene da chiedersi che personaggio sarebbe stato Primo Levi se non avesse vissuto l’esperienza così dilacerante, e assoluta, della deportazione ad Auschwitz. Ci chiediamo: quale personaggio; perché quale persona avrebbe potuto essere lo si può intuire, magari leggendo le molte interviste riunite da Marco Belpoliti (Einaudi 1997) oppure seguendo le confidenze di chi ebbe rapporti di amicizia con lui. Sarebbe stato, probabilmente, lo stesso uomo affabile, cortese, preciso, forgiato dalla formazione scientifica e dalla passione per la poesia. Ma quale personaggio è un’altra questione. Perché Levi, che nasceva il 31 luglio 1919, è diventato un personaggio pubblico per tutte le implicazioni portate dai suoi libri, ma anche per tutto ciò che seguì ai suoi libri: oltre alle interviste, appunto, un ruolo di educatore, di testimone nelle scuole, di intellettuale e opinionista, sia pure con la discrezione che gli era propria, lontanissima dai toni sguaiati degli opinionisti odierni. Ma è proprio sul suo modo di porre le cose, sul suo modo di raccontare, che fa perno questa domanda: come sarebbe stata questa persona, se tutto ciò non fosse accaduto, o non l’avesse coinvolto direttamente?
Ce lo chiediamo perché nelle opere di Levi coesistono, entrano in dialettica, continuamente si sovrappongono, le due matrici che rendono potenzialmente grande uno scrittore – e Levi è stato un grandissimo scrittore –: l’individuazione di uno stile e la sua messa in pratica. In Levi queste caratteristiche si riuniscono in una scrittura che è sempre stata diretta, limpida, leggibile, non aggressiva (neanche quando rende conto delle enormità disumane dell’abisso) e anzi amichevole nei confronti del lettore. Solo che nella sua opera è difficile capire in che misura questa caratteristica sia dovuta al Levi «come è nato» (indipendentemente, quindi, dalla sua tragedia) e in che misura, invece, alla ricerca costante, elaboratissima, professionale della chiarezza come imperativo etico.
Fino a che punto, allora, Levi è nato scrittore di trasparente comunicativa, e fino a che punto invece si è dedicato con applicazione al suo lavoro? Non lo sapremo mai; sappiamo che in un’epoca in cui la scrittura è da un lato trasandata (basta aprire qualunque giornale, ma anche i romanzi nostri contemporanei lasciano molto a desiderare – molto meglio i saggisti come Claudio Magris o Pietro Citati, o i lavori di traduzione come quello condotto pochi anni fa da Renata Colorni sulla Montagna magica di Thomas Mann) oppure è manierata da parte di scrittori che ripetono se stessi e le loro preziosità, ecco, in questa epoca la sua caparbia opera di leggibilità, la sua volontà di farsi capire, mossa anche dall’esigenza di testimoniare la tragedia vissuta, a monito per il futuro, è anche un esempio etico per quanti affrontano lo scrivere, nel rispetto, che Levi ebbe, di quanti lo leggeranno. Una lezione morale, da aggiungere a quelle del Primo Levi scampato all’inferno e testimone.