"L’assenza di guerra non significa pace"
08 luglio 2015
La chiesa metodista in Sri Lanka e le difficili condizioni delle religioni di minoranza
A pochi anni dalla pesante guerra civile, la sfida in Sri Lanka è oggi trovare una stabilità sociale tra etnie e religioni. Abbiamo intervistato Albert Jebanesan, presidente della Chiesa metodista dello Sri Lanka, che ci ha parlato della difficile condizione delle religioni di minoranza, della drammatica emigrazione dal paese, e del programma per la pace della chiesa metodista.
Nel panorama religioso dello Sri Lanka, qual è la posizione della chiesa metodista?
«Il metodismo in Sri Lanka comincia nel 1814, il 29 giugno, da noi festeggiato ogni anno come la “giornata metodista”. La missione in Sri Lanka è significativa, perché è l’ultima pianificata dal missionario metodista inglese Thomas Coke, dopo aver lavorato tanti anni in Africa e in America ed è quella pensata per l’Asia. Cominciò proprio qui, in Sri Lanka, che vanta la prima chiesa metodista di tutta l’Asia, nella città di Colombo, eretta nel 1816 (vedi foto). La chiesa conta oggi 35 mila membri, 225 chiese, 120 pastori, 80 laici a servizio. La religione predominante in Sri Lanka è il buddismo, che è riconosciuta come quella ufficiale».
Com’è il rapporto tra le religioni?
«Lo Sri Lanka ha tradizionalmente una storia di convivenza pacifica delle religioni. Ci sono musulmani, cristiani, induisti, e la maggioranza buddista. Negli ultimi anni assistiamo però a gruppi violenti di matrice buddista, che attaccano le minoranze religiose del paese, soprattutto cristiani e musulmani. Quindi da noi i musulmani e i cristiani vivono quest’esperienza dolorosa comune: l’essere sotto attacco. Bodu Bala Sena (Bbs) è il nome del gruppo buddista organizzato, che significa “brigata buddista”. Credono che lo Sri Lanka debba essere una nazione solo buddista, dove non c’è spazio per il cristianesimo e l’islam».
Cristianesimo e Islam si supportano in questa situazione?
«Non ci sono tensioni tra cristianesimo e islam, ma nemmeno delle relazioni di supporto. Essere sotto attacco provoca delle chiusure identitarie. Abbiamo il “Congresso delle religioni”, al quale partecipiamo tutti una volta l’anno, compresi i buddisti. E questo è comprensibile dal momento che non sono i buddisti tutti a provocare scontri, bensì questo gruppo minoritario, che ciononostante è molto violento. Attaccano le chiese e le moschee, lanciando sassi, picchiando i fedeli, rapinando e dando fuoco ai luoghi di culto e agli esercizi commerciali di musulamni e cristiani. Non ci sono sinora ancora omicidi, ma la situazione lascia immaginare che purtroppo possa accadere se si continua così».
Durante la guerra civile tramite i corridoi umanitari migliaia di persone lasciarono il paese. Ancor oggi però molte persone emigrano.
«La guerra civile in Sri Lanka , iniziata nel 1983 e conclusasi solo nel 2009, tra il governo ufficiale dello Sri Lanka e il gruppo etnico Tamil (col gruppo Tigri Tamil), ha provocato migliaia di morti anche tra i civili, perdita delle case e proprietà, condizioni di disabilità fisica e mentale per i danni da armi da fuoco, crollo dell’economia del paese e terrore diffuso. Le statistiche dicono che ci sono oggi 86mila vedove. In questi pochi anni di post conflitto migliaia di persone hanno deciso di lasciare il paese. Inizialmente verso l’Europa, i cui paesi, per esempio Inghilterra e Germania, hanno previsto delle “open visa” per i rifugiati. Dopo questo flusso di rifugiati iniziò quello dei ricongiungimenti familiari e degli amici, interessati a migliorare la propria condizione di vita. Il numero di visti venne drasticamente diminuito e aumentarono le restrizioni.
A fronte della chiusura via via sempre più stretta, le persone per migrare dallo Sri Lanka hanno cominciato a usare ogni metodo possibile per andare in Europa. Se in prima battuta bastava compare un biglietto d’aereo, ora le persone si affidano a specializzate “agenzie di viaggio”, che usano ogni strategia possibile. Per esempio mandano le persone in altre nazioni, in Africa, avviano processi quali il “changing the face”, ottenendo visti e passaporti di un paese terzo, per poi provare a ottenere un riconoscimento europeo e la possibilità d’entrata. Oppure fanno raggiungere regioni più vicine all’Europa geograficamente, lasciando poi che vengano tentati viaggi disumani, per esempio facendo attaccare le persone sotto i camion. Ciononostante i viaggi proseguono, tanta è la miseria da cui le persone scappano».
E per l’Australia?
«Quando andare in Europa divenne sempre più difficile, allora si intensificò il tentativo di giungere in Australia: via mare. Centinaia, migliaia di persone comprano una barca, un sistema di rilevamento satellitare, e tentano l’impossibile. Se si rompe il gps, o finisce la benzina, o succede qualcosa, non sanno cosa fare. Le persone che si imbarcano del mare non sanno nulla di navigazione. Dallo Sri Lanka all’Australia ci sono settimane di navigazione: sono viaggi senza speranza, spesso. L’obiettivo è raggiungere l’Isola di Natale (Christmas Island) che è una piccola isola, territorio australiano, la prima raggiungibile dallo Sri Lanka. Migliaia di persone partono e non se ne hanno più notizie. L’Australia sta facendo una massiccia campagna in Sri Lanka per disincentivare le partenze, ma non sta funzionando. A casa rimangono le mogli e i bambini, i genitori, di persone di cui non si hanno più notizie».
Cosa fa la chiesa metodista a fronte i questa situazione?
«Crediamo che convincere le persone a non partire non sia la soluzione. Bisogna capire perché le persone scappano. Ora che la guerra è finita, perché la migrazione continua? Questo significa che l’assenza di guerra non significa pace. Dobbiamo trovare il modo di costruire la pace; di capire come vivere in armonia tra gruppi etnici e religiosi differenti. Per raggiungere l’obiettivo servono politiche adeguate e lungimiranti. In agosto ci saranno le prossime elezioni, noi ci auguriamo che per il nuovo governo eletto dal popolo questa sia una priorità di azione politica. La chiesa metodista è estremamente impegnata in questa missione, e dà il massimo supporto a programmi di costruzione di pace, anche collaborando con quelli governativi».
Avete un programma specifico?
«Abbiamo inaugurato un programma chiamato “Oltre le frontiere”, condotto dal nostro ufficio “pace e giustizia”. Le persone, le lingue e le religioni hanno creato barriere: noi lavoriamo per superarle. Facciamo incontrare induisti con buddisti, musulmani con cristiani, le diverse religioni e etnie insieme, mediando un dialogo franco. Creiamo momenti di dialogo tra le persone, nei villaggi e nelle città. Abbiamo selezionato 13 aree di conflitto. Formiamo dei mediatori per il dialogo, supportiamo e aiutiamo a condurre gli incontri: ne abbiamo organizzati centinaia. Abbiamo creato una rete di volontari, che vengono formati e che vivono in queste zone. Persone che credono nel progetto di dialogo e pace: sono loro che, vivendo nella rete sociale, sono in grado di portare il progetto nel territorio. I volontari non sono solo metodisti: chiunque può far parte del progetto. Sono persone di ogni etnia e religione, impegnate insieme. L’obiettivo non è quello di mostrare l’impegno della chiesa metodista in questo progetto: l’obiettivo è quello di creare un processo di pace».