L’America è ancora cristiana?
19 maggio 2015
Un mito da sfatare in due recenti libri
Nei mesi scorsi sono stati pubblicati due libri dal titolo quasi uguale, ma diversi nella forma e nel contenuto: A Nation Under God [Una nazione sotto (o sottomessa) a Dio] e One Nation, Under Gods [Una nazione, sotto (o sottomessa) a Dèi]*. L’autore del primo, Kevin M. Kruse, è uno storico di professione, docente alla Princeton University e autore, fra l’altro, di White Flight: Atlanta and the Making of Modern Conservatism (2007), che tratta di razzismo e movimento per i diritti civili, vincitore di tre premi di altrettante società di studi. Il secondo autore è Peter Manseau, uno storico indipendente, cioè appartenente alla folta schiera di studiosi che si dedicano a temi storici senza occupare un posto in una istituzione accademica.
I due libri, quindi, si presentano formalmente diversi: quello di Kruse è il frutto di lunghe e meticolose ricerche su fonti archivistiche di associazioni, persone, agenzie governative, industrie e chiese, con un cospicuo apparato di note (pp. 302-37); quello di Manseau, invece, è un’opera di sintesi storica (l’autore riconosce il proprio debito nei confronti di «diverse generazioni di storici») e di ricerca originale su articoli e documenti vari disponibili in archivi digitali, debitamente indicati nelle note (pp. 417-57). Inoltre, Manseau ha viaggiato per anni per conoscere persone, luoghi e manifestazioni dell’«America religiosa».
Pur avendo un obbiettivo comune, sfatare il mito dell’«America cristiana», gli autori seguono un percorso molto diverso. Kruse si concentra sull’invenzione di questo mito tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta e dimostra che l’idea di una nazione cristiana non è un retaggio dei Padri fondatori di fine Settecento o una costruzione ideologica del periodo della Guerra civile di metà Ottocento, bensì il frutto di una scelta operata da grandi industriali per contrastare la politica progressista del New Deal. Mescolando abilmente storia religiosa e storia del capitalismo, l’autore offre un’interpretazione originale dell’identità religiosa americana, fornendo un ottimo esempio di revisionismo storico. Seguendo capitolo per capitolo questa preistoria della destra religiosa americana, viene gradualmente alla luce un’alleanza tra industriali e finanzieri reazionari (tra i quali i dirigenti di DuPont, General Motors e Hilton Hotels), leader politici conservatori e senza scrupoli e leader religiosi consenzienti o strumentalizzati, un’alleanza che mirava a combattere l’incarnazione politica dell’Anticristo, Franklin Delano Roosevelt, per salvaguardare il principale principio del cristianesimo, la santità e la salvezza dell’individuo, e i valori della libera impresa.
Furono infatti le politiche di «statalismo pagano» del New Deal rooseveltiano, come le misure che regolavano le relazioni industriali e aprivano nuovi spazi alle organizzazioni sindacali, a innescare la campagna politica antiliberale che, con lo slogan «freedom under God», contribuì a forgiare il mito dell’America cristiana e culminò nell’elezione di Dwight Eisenhower nel 1952. Ma proprio con la presidenza Eisenhower, un movimento politico-religioso che era nato in contrapposizione al governo si trasformò in uno nel quale la fede si mischiava al governo federale, dando vita a nuove tradizioni come la preghiera al momento dell’insediamento del nuovo presidente e la «Colazione nazionale di preghiera». Durante questi anni, il Congresso approvò l’iscrizione «In God we trust» sulle banconote (prima era stata posta solo sulle monete) e l’aggiunta della frase «under God» al Pledge of Allegiance (giuramento di fedeltà alla bandiera, recitato ogni mattina dai bambini ) che, nella versione originale composta da Francis Bellamy, un battista che credeva nella separazione tra chiesa e stato, non conteneva alcun riferimento a Dio.
Attraverso il pluralismo religioso che ha caratterizzato gli Stati Uniti fino dalle sue origini, Manseau racconta da una prospettiva religiosa in gran parte nuova una storia diversa, più variegata di quella che generalmente gli americani sentono ripetere. Le streghe di Salem, gli irochesi e i musulmani nel periodo coloniale, gli hindu e i cinesi, i mormoni e i campi di concentramento per giapponesi durante la seconda guerra mondiale sono collocati in un tessuto narrativo affascinante. La metafora della «città sulla collina» viene decostruita e ricostruita per indicare non più l’America come «nazione di Dio» ma «degli Dei». L’autore ricorda che lo stesso Thomas Jefferson possedeva libri su tutte le religioni e volle che fossero acquisiti dalla nuova Biblioteca del Congresso, perché tutti gli americani dovevano essere tolleranti nei confronti di qualsivoglia religione o di nessuna religione; come scrisse nelle sue Note sullo stato della Virginia, «non mi arreca alcun danno se il mio vicino dice che ci sono trenta dei o nessun dio».
La morte dei tre studenti musulmani, assassinati nel campus universitario di Chapel Hill (Carolina del Nord) a febbraio 2015, ha mostrato l’impatto devastante di una campagna islamofoba che ha avuto inizio con gli attentati alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 e rivela l’urgenza di ricordare agli americani – ma anche agli europei – che l’Islam fa parte del retaggio culturale e religioso comune.
* Kevin M. Kruse, A Nation Under God: How Corporate America Invented Christian America, 352 pp., Basic Books, New York 2015; Peter Manseau, One Nation, Under Gods: A New American History, 469 pp., Little, Brown and Co., New York 2015.