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Il prezzo della libertà

Otto gruppi armati del Centrafrica annunciano il disimpiego dei bambini soldato. Il commento di Rino Sciaraffa, Compassion Italia

I ricordi d’infanzia ci segnano maggiormente rispetto ad altri, perché ci impressionano, forgiano la nostra immaginazione e ci danno dei termini di paragone per interpretare e capire il mondo. Come influenza la vita di un bambino un ricordo di guerra, di un assassinio, di una violenza carnale, di una tortura? In Repubblica Centrafricana, nel conflitto che dalla fine del 2012 vede contrapporsi diversi gruppi armati, sono coinvolti dai 6 ai 10 mila bambini, secondo l’Unicef, impiegati come soldati o come supporto ai miliziani, oltre ad essere vittima in prima persona di violenze sessuali e brutalità «sono notizie sconvolgenti, soprattutto perché perpetrate in una situazione di guerra che condiziona radicalmente la vita degli abitanti locali» dice Rino Sciaraffa, di Compassion Italia Onlus. In un incontro pubblico nella capitale Bangui, otto gruppi armati hanno preso l’impegno di liberare i bambini utilizzati nelle loro operazioni. Un impegno dei confronti del futuro del paese, ma che può nascondere anche altri interessi.

Qual è lo shock che vive un bambino impegnato in un conflitto?

«Su questo abbiamo molte testimonianze nel nostro lavoro quotidiano: spesso i bambini sono vittime di violenze fisiche, vengono loro somministrate sostanze stupefacenti e sono vittime o artefici di atrocità: tutto questo lascia delle tracce indelebili. Quando entrano nei nostri centri, inizia una grande opera di ricostruzione dell’identità della persona, del proprio valore e una rieducazione al valore della vita umana, anche perché l’utilizzo quotidiano della violenza tende a diventare normale. Un percorso che non è semplice».

Ci sono gli strumenti per farlo?

«Ci sono degli psicologi specialisti che intervengono nell'attività di rieducazione pedagogica; anche la scuola svolge un ruolo importante: fa in modo che questi bambini si ritrovino insieme in un percorso educativo diverso, che attraverso l’alfabetizzazione e la rieducazione alla relazione, anche con gli adulti, li aiuta a superare questi traumi, che comunque rimarranno nella loro vita. L’operatività dipende dal contesto: pensiamo alla Somalia, area lasciata a sé stessa, dove addirittura Medici Senza Frontiere ha dovuto abbandonare le proprie postazioni. Gli scenari in cui si opera sono molto diversi, in Kenia per esempio, c’è un asset geopolitico più stabile. Ma in Centrafrica la situazione è particolarmente complicata».

Come soffre la popolazione adulta per l’impiego di bambini nel conflitto?

«Soffre moltissimo. In questi casi viene abbandonata ogni dinamica relazionale, spesso le famiglie a cui sono strappati i figli non sapranno mai che fine hanno fatto. In molte zone dell’Africa, quando parliamo di famiglia, il modello che dobbiamo tenere presente è molto diverso da quello occidentale: la famiglia è un clan famigliare di stampo patriarcale, molto allargata, e le relazioni sono intensificate. Ci sono altri contesti in cui il bambino non ha la stessa valenza degli adulti e non è quasi nulla. A queste situazioni si somma la situazione di estrema precarietà esistenziale che incide sulla speranza di futuro: ogni giorno vivrò nella paura che il mio villaggio possa essere attaccato, un mio familiare rapito, mia moglie violentata».

La notizia dei gruppi armati che si impegnano a non utilizzare più i bambini va letta con cautela?

«Bisogna capire se è un intervento politico per accattivarsi le simpatie della popolazione locale o se è un riscatto del proprio futuro. Purtroppo dobbiamo considerare la complessità di queste situazioni, non ci sono demarcazioni nette, ci sono sempre delle zone d’ombra. Una situazione simile si è verificata in Angola: molte bande che avevano assoldato bambini soldato si erano impegnate a rimandarli alle loro famiglie ma, si è scoperto, perché c’erano altri bambini da poter utilizzare per gli stessi scopi. La guerriglia è determinata da singoli capi che hanno dietro di sé una piccola truppa, e che ragionano in maniera del tutto autonoma. Spesso sono in conflitto gli uni contro gli altri per acquisire una posizione migliore di controllo del territorio. Sono situazioni paramilitari e semiterroristiche, non hanno una strategia comune tra loro, e spesso sono guidate degli interessi minerari sul territorio: a volte queste bande sono semplicemente composte da criminali, occupano un’area geografica terrorizzando la popolazione per incrementare esclusivamente i propri profitti economici».

Foto: porzione di "CAR classroom" by hdptcar from Bangui, Central African Republic - Mission to Sam Ouandja Uploaded by mangostar. Licensed under CC BY 2.0 via Wikimedia Commons.