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Gian Luigi Pascale fra martirio e resistenza

Una nuova edizione dell’epistolario del pastore arso sul rogo nel 1560

In Calabria e nell’entroterra irpino-foggiano, fino alla metà del ’500 alcune migliaia di valdesi, giunti dal Piemonte e dal Delfinato fra XIV e XV secolo, avevano potuto sopravvivere quasi indisturbati. I contatti fra Nord e Sud, garantiti tramite i barba, erano proseguiti senza interruzione anche a seguito dell’adesione alla Riforma. Tuttavia il fermento degli anni ’50 e la transizione verso un’organizzazione delle comunità in parrocchie sul modello ginevrino contribuì a dar loro maggiore visibilità. In seguito alla richiesta di predicatori rivolta dalle colonie calabresi al Consiglio dei pastori di Ginevra, a Guardia, San Sisto e nei borghi vicini giunsero Etienne Negrin da Bobbio Pellice, Giacomo Bonelli originario di Dronero e Giovanni Luigi Pascale, allora a Losanna.

Nato a Cuneo, Pascale si era trasferito a Ginevra e poi a Losanna, dove frequentò l’Accademia teologica di Pierre Viret e Théodore de Bèze. Nel frattempo la preoccupazione dell’Inquisizione romana era cresciuta nei confronti delle minoranze etniche e religiose. In questo clima la predicazione di Pascale, praticata senza prudenza, invitava i fratelli a non nascondere le proprie convinzioni. Il suo arrivo fu una rottura rispetto ai suoi predecessori. Costretto ad abbandonare San Sisto, si spostò a La Guardia. Il 2 maggio 1559 fu incarcerato nel castello di Fuscaldo (per otto mesi) poi a Cosenza, a Napoli e infine a Roma dove, condannato dall’Inquisizione, il 16 settembre 1560 fu bruciato sul rogo nella piazza di Castel Sant’Angelo.

Personaggio di spessore intellettuale e slancio evangelico, in carcere scrisse decine di lettere* agli amici di Ginevra, ai valdesi di Calabria, al fratello Giovanni Bartolomeo e alla fidanzata Camilla Guarino, che presto furono raccolte e pubblicate da Scipione Lentolo e Jean Crespin, con ampia diffusione nell’Europa protestante. Pascale stesso ne raccomandava la pubblicazione, come testimonianza di martirio e come ammaestramento morale nei confronti dei fratelli perseguitati e di coloro che ne seguivano le sorti a distanza. Caratterizzate da un linguaggio ben radicato nelle fonti bibliche, in particolare di derivazione paolina, tipico di un certo clima culturale da «combattimento spirituale», il testo è fitto di termini guerreschi (nemico, armi, combattimento, esercito, capitani, vittoria), violentemente polemico contro gli «idoli» e contro la messa (horribile idolatria), con numerosi ed espliciti riferimenti all’Antico Testamento.

In una sorta di appassionata predicazione, nella consapevolezza dell’inevitabilità e del valore del sacrificio a cui Dio lo ha chiamato, il suo messaggio ai fratelli calabresi si fa via via più esplicito («... bisognava piuttosto morire che abbandonare così santa impresa, e così sentiva la mia coscienza obbligata a predicare loro con l’esempio, poiché non potevo farlo con la voce»). Nell’invocare Dio affinché gli desse la forza per sopportare i patimenti della prigionia e dell’inevitabile supplizio finale, egli è costantemente consapevole di dover sostenere la propria missione come un combattimento e giunge anche a parlare di se stesso come di un soldato.

La principale convinzione che egli è chiamato a testimoniare è la verità della Parola di Dio, che consiste innanzitutto nel rifiuto all’idolatria. Se è Dio stesso che lo prepara alla battaglia, specularmente quella dei nemici è una battaglia contro Dio in nome delle tentazioni di Satana. Si tratta di una missione in cui il concetto di battaglia è costantemente affiancato a quello di edificazione della chiesa di Cristo, ed è proprio in tale contesto che Pascale inserisce espliciti riferimenti al martirio, come forma di combattimento e di testimonianza. Pur in questa adesione incondizionata al sacrificio inevitabile a cui Dio lo ha chiamato, Pascale pensa al suo gregge e non pretende da tutti la medesima disponibilità: «ma alcuni diranno che non si sentono le forze per morire per Gesù Cristo, e io rispondo che chi teme di essere vinto combattendo, deve almeno eleggere di vincere fuggendo. Perciò il fuggire vi è lecito; ma piegare i ginocchi a Baal vi è proibito sotto pena della dannazione eterna».

Tuttavia, in tutte queste sue esortazioni ai fratelli in pericolo, mai si affaccia la possibilità di una reazione armata contro l’aggressione del nemico, anche se nelle sue pagine quella del martirio appare come una vera e propria forma di resistenza. La testimonianza è, secondo Pascale, utile a far conoscere la Verità di Dio e a svelare gli inganni dei suoi nemici: «D’una consolazione tra le altre ho da ringraziarlo ed è il rumore popolare ch’io intendo essere in queste parti – scrive il 17 marzo 1560 dalla prigione di Cosenza –, in quanto alla religione, di modo che molti, avendo notizia della nostra confessione, si maravigliano della tirannia dei nostri avversari. E questa è la cagione che io desidero che la confessione della nostra fede non resti del tutto sepolta; atteso che la nostra detenzione è manifesta in molti luoghi di questa cieca Italia, onde penso che la nostra morte non sarà neanche sepolta. Della quale tanto più mi rallegro quanto più spero che il Signore se ne debba servire per qualche edificazione della sua Chiesa e maggiore assai di quanto farei restando in vita».

La coerenza dimostrata da Pascale nel sostenere le proprie convinzioni di fede e nel sostegno che egli (prigioniero prossimo al supplizio) offre ai suoi fratelli calabresi (pur in pericolo ma ancora liberi), non va letta soltanto come dimostrazione di fede incrollabile e disposizione al martirio, ma anche come rinnovata proposta di una forma di resistenza che trae forza da una lunga e ininterrotta catena di testimoni della Verità, in un momento storico in cui si stanno per inaugurare gli scontri confessionali che infiammeranno il regno di Francia per quasi quarant’anni.


 

* Lettere d’un carcerato (1559-1560) annotate e fatte precedere da un cenno biografico sullo scrivente Gian Luigi Pascale per opera di Arturo Muston, Torre Pellice, Libreria «La Luce», 1926, pp. 37-38. Della pubblicazione di Muston esce ora una ristampa a cura delle edizioni Prometeo di Castrovillari, con l’aggiunta di una prefazione tratta da un articolo di Augusto Armand Hugon pubblicata su «Il Ponte», VI, 9-10, 1950.

Segnaliamo inoltre la voce «G. L. Pascale» curata da Susanna Peyronel nel vol. 81 del Dizionario biografico degli italiani.