Bonhoeffer for dummies (cattolici)
09 aprile 2015
Il focoso innamoramento intellettuale per un teologo che non invecchia
Avrò avuto 16 o 17 anni la prima volta che sentii parlare di un tal Dietrich Bonhoeffer. E mi fece subito, istintivamente, simpatia. Erano gli anni delle superiori, vissuti con gli occhi spalancati sul mondo, traccheggiando nei corridoi di un rinomato (e un po’ pretenzioso) liceo classico torinese. A tessermene l’elogio era stata la mia insegnante di religione. E non stupiva affatto – all’epoca – che una docente “ufficialmente” cattolica facesse pubblicità per un teologo della “concorrenza”. Sarà stato il clima culturale dell’epoca (molto meno identitario), sarà stata la nostra beata e incosciente verginità in materia di faccende ecclesiastiche: fatto sta che la barriera confessionale non ci faceva né caldo né freddo.
Semmai, ciò che mi colpì – e solo in positivo – fu ascoltare per la prima volta parole cristiane che, veramente, non sapevano di muffa. Parole che venivano da un tempo passato che fortunatamente non avevo vissuto – gli anni dell’orrore del nazismo e della tragedia della seconda guerra mondiale – ma che sembravano scritte per “parlare” proprio a me, in quell’istante e in quel modesto angolo di mondo occidentale. Erano frasi “a effetto” che sembravano schiudere tutta una serie di verità spirituali fino allora rimaste nascoste ai miei occhi: riferimenti a un «mondo diventato adulto», in cui un cristiano doveva vivere rifiutando l’ipotesi facile del «Dio tappabuchi», anzi vivendo «etsi Deus non daretur», come se Dio non esistesse. A dei neofiti entusiasti delle alture del pensiero filosofico-teologico-politico come eravamo allora, il paradosso di «vivere davanti a Dio l’assenza di Dio» suonava irresistibilmente affascinante.
Altrettanto affascinante era la parabola esistenziale di Bonhoeffer, ammantata com’era di quel “che” di eroico e di perdente da risultare un inevitabile destino, agli occhi di ogni buon adolescente che aspiri all’assoluto: la figura del teologo prussiano di buona famiglia che si schiera contro la prussianità impazzita; il brillante studioso che si può mettere in salvo negli Stati Uniti ma che decide di tornare in patria per combattere la “buona battaglia”; il pacifista che si ispira a Gandhi ma che, senza rinnegare la nonviolenza, decide di partecipare al complotto per uccidere Hitler…
Insomma, per farla breve, Bonhoeffer fu per me (e tanti altri cattolici un po’ irregolari come me) “il” teologo di riferimento, una figura per certi versi simile a ciò che dovettero essere Mao e Marcuse per la generazione del movimento del ’77. In ogni “pensieroso” discorso tra amici, in ogni riunione improvvisata in fumose piole, scivolava naturalmente la citazione di Bonhoeffer o il riferimento a una sua opera (Resistenza e Resa, Sequela…).
Ma la cosa formidabile di questo focoso innamoramento intellettuale è il suo esito: a più di trent’anni di distanza da quel mio incontro con il teologo tedesco, evaporati gli ardori adolescenziali, quietati gli empiti mistici, deluse tante speranze di cambiamento politico-ecclesiastiche, il buon vecchio Dietrich resta lì, senza che le sue parole siano arrugginite né le sue intuizioni invecchiate e smentite. Un teologo che abbia parlato così lucidamente alla testa, e così appassionatamente al cuore, dei cristiani del nostro tempo, beh, ragazzi, devo ancora trovarlo!