Il lavoro straniero: giovane, grande e in attivo
01 aprile 2015
Il 2014 verrà probabilmente ricordato come l’anno col più alto numero di sbarchi sulle coste italiane, eppure le migrazioni in Italia non sono soltanto sbarchi. Ce lo raccontano i numeri raccolti dalla fondazione Leone Moressa di Mestre nel suo ultimo rapporto
Il 2014 verrà probabilmente ricordato come l’anno col più alto numero di sbarchi sulle coste italiane, un dato che al di là dei numeri ci racconta storie di fuga da conflitti e diritti negati. Eppure, quando si parla di stranieri nel nostro paese, bisogna sgomberare il campo da una retorica potenzialmente pericolosa, quella che cerca di dipingere il fenomeno dell’immigrazione come una questione interamente raccolta intorno agli sbarchi.
Se allarghiamo il nostro campo visivo e guardiamo al complesso della popolazione straniera in Italia, possiamo provare a raccontarla con tre caratteristiche: grande, giovane e in attivo. Si tratta di una descrizione che non proviene soltanto da un’impressione, ma viene supportata da numeri, quelli del quarto rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, pubblicato a marzo dalla Fondazione Leone Moressa, un istituto di studi e ricerche nato nel 2002 da un’iniziativa della Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre. «A livello statistico – racconta il ricercatore Enrico Di Pasquale – non si può confondere il fenomeno degli sbarchi con quella che è la migrazione in Italia. Parliamo di una popolazione pari a cinque milioni, quindi una quota dell’otto per cento rispetto alla popolazione complessiva, mentre gli sbarchi, pur nell'anno record 2014, hanno raggiunto i 170.000». Secondo il rapporto, sono circa 500.000 le imprese guidate da stranieri e quasi due milioni e mezzo i lavoratori, per un apporto fiscale di poco inferiore ai 7 miliardi di euro annui.
I numeri, elencati in modo disordinato, raccontano poco, ma in questo caso ci dicono molto: la storia dell’immigrazione in Italia è ancora giovane, e proprio questo permette di osservare un fenomeno che si trasforma a vista d’occhio. La maggior parte degli immigrati che risiedono in Italia ormai non è più costituita da persone appena arrivate, ma da famiglie che si sono stabilizzate, che lavorano, producono ricchezza, mandano i figli a scuola e cercano percorsi di integrazione.
© 2014 Fondazione Leone Moressa
Un passo indietro è però doveroso: i numeri non possono raccontare tutto, e almeno due fenomeni rimangono giocoforza tagliati fuori da ogni statistica: l’economia informale e il diritto a vivere sul nostro territorio. «Il fenomeno del lavoro nero, dell'economia informale in generale – racconta ancora Di Pasquale – è molto difficile da osservare, ma sicuramente interessa in maniera rilevante anche la popolazione straniera». La perdita di lavoro dipendente, infatti, ha portato da un lato a un aumento dell'imprenditorialità straniera, nel senso che molti si sono reinterpretati imprenditori, hanno aperto un'attività in proprio, ma sicuramente ha contribuito anche al fenomeno dell'economia sommersa. Su questa tesi insiste anche il sociologo Maurizio Ambrosini, che porta alla luce un’altra questione che troppo spesso viene dimenticata, quella del “welfare invisibile”: quando si parla di economia sommersa molto spesso si pensa al mondo dell’edilizia o a quello della raccolta della frutta, ma si dimentica il sistema dei e delle badanti, che in molti casi, pur in una condizione di irregolarità, garantiscono la tenuta del welfare e la sostenibilità di molte situazioni famigliari.
Stiamo parlando infatti di situazioni di irregolarità che vanno di pari passo con una crisi economica che, stando ai dati pubblicati da Istat, ha colpito con più forza il lavoro straniero, spesso svolto in ambiti di scarsa protezione professionale e sociale, oltre che in settori molto sensibili alla crisi, come l’edilizia e le manifatture. Mentre tra il 2007 e il 2013 il tasso di disoccupazione degli italiani cresceva di 3 punti percentuali, quello degli stranieri è aumentato di 9, ponendo coloro che lavoravano in modo regolare di fronte a un bivio, che spesso conduce comunque a una sola conclusione. «Il fatto di legare il permesso di soggiorno all'occupazione – secondo Di Pasquale – ha fatto in modo che molti cittadini stranieri abbiano dovuto trovare delle forme “formali” di occupazione, ma che in realtà non sono vere, dando vita al fenomeno delle false partite Iva e dei falsi imprenditori».
Tuttavia, dal mondo del lavoro non si esce soltanto verso la disoccupazione, e qui entrano in gioco due dimensioni sottovalutate: la gioventù e la disuguaglianza. Il grande apporto fiscale del lavoro immigrato, infatti, ha un tasso di restituzione quasi trascurabile. «Va detto che la popolazione straniera è mediamente più giovane rispetto a quella italiana – dice ancora Enrico Di Pasquale –, quindi il fenomeno dei pensionati immigrati è sicuramente marginale». Eppure esiste, ma paradossalmente segue una curva opposta rispetto a quella della popolazione, con uno spartiacque costituito dalla legge Bossi–Fini del 2002: prima di questa legge, infatti, era possibile per uno straniero che rientrava nel suo paese riscattare i contributi versati in Italia, da quella data in poi no. Molti degli stranieri che rientrano in patria, quindi, perdono il diritto ad usufruire dei contributi versati. Spesso taciuto da chi ha costruito la propria carriera sul contrasto all’immigrazione, questo dettaglio impone un’ultima riflessione. Gli stranieri sono davvero un costo? Secondo il rapporto della Fondazione Moressa, così come per i dati Istat, la risposta è un secco no. Facendo un bilancio tra costi e incassi del fenomeno migratorio, infatti, si scopre che la spesa pubblica destinata agli immigrati ammonta a 12,6 miliardi di euro annui, a fronte di un gettito fiscale e contributivo superiore ai 16 miliardi e mezzo, che porta a un attivo per il nostro paese di circa 4 miliardi di euro ogni anno. A volte i numeri non descrivono un fenomeno per quello che è, ma sicuramente possono contribuire a “ripulirne la narrazione”, senza bisogno di commenti.
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