I confini della prostituzione
06 marzo 2015
La zonizzazione è un fenomeno di mediazione sociale, Roma si è interrogata se è adatto per la prostituzione: Serughetti, «Valutiamolo in base alla tutela di chi si prostituisce»
Qualche settimana fa a Roma è stato proposto e discusso un progetto di zonizzazione, ovvero attribuire a una parte di un territorio una determinata funzione. Il centro del dibattito era delimitare in un’area specifica la prostituzione, permettendo di avere un controllo maggiore, limitare lo sfruttamento e intervenire con azioni di aiuto e supporto a chi si prostituisce. Le reazioni sono state molte, soprattutto contrarie, si è parlato di "ghetto" e di "zona a luci rosse", il prefetto Pecoraro ha affermato che agire in questo modo andrebbe nella direzione del favoreggiamento. Quest'ultimo, insieme allo sfruttamento, sono impediti dalla legge Merlin, spesso indicata come inadatta a fronteggiare l’aspetto criminale della gestione del fenomeno della prostituzione. Il discorso della tutela di chi si prostituisce si somma poi inevitabilmente la questione della tratta di esseri umani e della riduzione in schiavitù, per la maggior parte di donne straniere: da questo punto di vista l'articolo 18 del testo unico sull'immigrazione è un utile strumento per tutelare le persone, ma andrebbe indubbiamente sfruttato meglio. Della notizia e della complessità del fenomeno, abbiamo parlato con Giorgia Serughetti, esperta di processi culturali, collaboratrice dell'università di Milano-Bicocca, e autrice del libro "Uomini che pagano le donne".
Cosa ha pensato della proposta e delle polemiche?
«Io credo che la questione del quartiere a luci rosse sia stata mal comunicata. Guardando la delibera del IX municipio e ascoltando cosa dice il suo presidente Andrea Santoro, quando in queste settimane si spende per spiegare qual è il suo progetto, l’espressione “quartiere a luci rosse” non viene mai utilizzata, per una ragione semplice: è un’altra cosa. Non è effettivamente realizzabile dentro l’ordinamento vigente in Italia, che è di tipo abolizionista. Quello di cui si stava parlando, in realtà, è uno strumento che propriamente si definisce di mediazione sociale: si interviene in un territorio cercando di contemperare le esigenze di vari gruppi presenti, nello specifico i cittadini, le persone che si prostituiscono, le organizzazioni che operano a vantaggio di chi si prostituisce. Questi gruppi si sono seduti intorno a un tavolo municipale per discutere di questa ipotesi di zonizzazione, è un processo, più che una decisione che si prende una volta per tutte. Si prova a vedere se spostando la prostituzione di strada in zone dove i cittadini siano meno interessati e potenziando in quelle zone i servizi di assistenza e informazione, di invio ai servizi sanitari, migliora la situazione del quartiere oppure no, ma soprattutto se migliora la situazione delle persone che si prostituiscono. Dopo una prima perplessità, cercando di capire un po’ di più, mi sono espressa favorevolmente. Mi sono chiesta se sia meglio la situazione attuale, oppure qualcosa di più si può fare. L’iniziativa la valuto in base all’impatto che ha sulle persone che si prostituiscono: credo che quella iniziativa, che prevedeva anche un potenziamento delle unità di strada, stesse andando in una direzione corretta. Non è una novità assoluta, a Venezia è stata fatta in modo simile, molto tempo fa, come è possibile fare dentro il contenitore della Legge Merlin, i sindaci gestiscono le situazioni locali. I sindaci negli ultimi anni lo hanno fatto, ma in modo repressivo: emanando ordinanze anti prostituzione con lo scopo di far scomparire la prostituzione dalla strada, o spostandola dove non si vedesse. Il risultato è stato che la situazione è tornata come prima una volta allentati i controlli».
Come riguarda la tratta?
«Oggi siamo ai minimi storici di capacità di intervento sulla tratta, ragioniamo se questa o altre iniziative siano da raccogliere per combattere lo sfruttamento. Le persone non escono da sole da una situazione di sfruttamento: non basta dire c’è la legge, venite da noi. Non funziona: qualcuno deve arrivare fino a loro, e non una volta sola al mese perché troverà persone diverse e non riuscirà a costruire nessun rapporto di fiducia, che possa portare una donna a presentarsi allo sportello, a fare una domanda di protezione sociale e quindi ad avere un permesso di soggiorno».
Qual è la direzione per trovare soluzioni in un clima repressivo e abolizionistico?
«Siamo all’incrocio di due legislazioni: una è quella sull’immigrazione, che è quella che ci interessa quando parliamo di vittime di tratta, l’articolo 18 del Testo Unico, e offre degli strumenti di fuoriuscita e integrazione. La volontà politica è bassissima, siamo ancora in attesa di un piano nazionale antitratta che doveva essere varato l’estate scorsa, i fondi per gli interventi sono stati tirati fuori all’ultimo nella legge di stabilità, perché rischiavano di non essere stanziati. La situazione è drammatica. L’altro punto sulla legislazione riguarda la legge Merlin, che forse è la legge più odiata da una fetta importante della popolazione, perché è identificata come quella che proibisce la prostituzione e che crea i fenomeni di criminalità. In realtà la legge vieta solo lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione, ma il problema però lo pone. Credo che qualche modifica si potrebbe anche apportare a questa legge, interveniva su un fenomeno così come si presentava negli anni ’50 e sembra essere meno capace, oggi, di garantire condizioni di vita ragionevoli, pienezza di diritti e una condizione di protezione dalla violenza alle persone che si prostituiscono. La situazione di vulnerabilità, ad esempio delle persone migranti, è maggiore. Da un lato l’articolo 18 va a intervenire sulle situazioni di sfruttamento e di tratta, dall’altra ci sono una quantità di situazioni meno esplicitamente di coercizione, sulle quali il quadro attuale è meno efficace. Si pensi a chi esercita in casa. È un ragionamento molto complesso da fare, e bisognerebbe farlo in maniera terribilmente seria, perché non diventi l’avallo di uno sfruttamento legalizzato: senza la volontà politica, vera, anche di confrontarsi, non sarà facile capire da che parte andare».
Perfezionare la legge è il primo passo da fare?
«No. Il primo passo è dare forza e strumenti a ciò che già esiste. In questo senso non servono nuove leggi, basta che le cose che ci sono siano implementate con serietà e fondi. Poi servirebbe un investimento culturale, l’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole, quindi cominciare a trasformare ciò che di fatto fa da sostegno culturale alla prostituzione. Questo ci aprirebbe delle possibilità di intervento che non sono necessariamente quelle della legge. Una riforma della legge Merlin è un passo che si può fare, e se si dà ascolto all’organizzazione per i diritti civili delle prostitute questo è un passo importante, ma lo si deve fare senza il carattere di urgenza che spesso si usa nel Governo o nel Parlamento, ma con un ragionamento ampio, in maniera partecipata».
Quanto contano le questioni di genere con il fenomeno della prostituzione? E su questo che bisogna agire?
«Sì. La prostituzione non riguarda solo donne, ma anche trans e uomini, ma per quanto riguarda i clienti, la stragrande maggioranza sono uomini. Il fenomeno richiede di riflettere sulla sessualità maschile, e se di intervento culturale vogliamo parlare, ciò riguarda la relazione tra i generi, e il desiderio maschile, la costruzione della sessualità maschile, così come si costruisce attraverso l'apprendimento dei modelli di comportamento sessuale, insomma il modo in cui gli uomini imparano a essere maschi. Una sessualità vissuta ancora tantissimo come prestazione: i clienti non sono persone che hanno una visione particolarmente diversa della sessualità rispetto a chi non va a prostitute. L’idea strumentale della sessualità e un’apprensione al consumo sessuale accomuna tutti. Questo è un tema importante, visto che non stiamo parlando di una devianza, ma di un fenomeno che rientra in una sorta di normalità. Ci sono uomini che stanno facendo questo percorso per capire la cosiddetta "miseria del maschile", di chi si crede così poco desiderabile da dover pagare una donna, ma dentro a un sistema culturale che non è solo questo. Non c’è soltanto l’uomo che paga per il sesso perché non ha altra possibilità, ma perché è una forma molto leggera di relazione, che si chiude alla fine del tempo pattuito. Gli interrogativi sociali e culturali sono grandissimi, e ci riguardano tutti».