Le carte di Netanyahu
05 marzo 2015
Il discorso al Congresso Usa del premier israeliano ha irritato Obama, ma potrebbe essere una carta vincente nella campagna elettorale di Netanyahu
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pronunciato un discorso al Congresso degli Stati Uniti, dove ha criticato le scelte di Obama nel progetto di risoluzione dei rapporti con l'Iran. Netanyahu e Obama non si sono incontrati, ma il presidente Usa ha definito il discorso "retorico". Secondo Obama la risoluzione pacifica e la limitazione graduale delle sanzioni è l'unica strada per evitare la corsa all'atomica dell'Iran. Abbiamo commentato le notizie con Daniele Scalea, studioso di geopolitica, direttore generale dell’IsAG, Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie di Roma.
Come commenta le notizie che hanno parlato del discorso di Netanyahu al Congresso?
«Forse si manca di sottolineare quanto sia storico il discorso di Netanyahu. Non si ricorda un caso in cui un capo di governo straniero sia andato degli Stati Uniti, a parlare davanti al Congresso in sessione congiunta, fondando il suo discorso su una confutazione delle ragioni politiche del Presidente. Una prima volta. La risposta di Obama è stata una critica molto forte al discorso, definito come retorico e non costruttivo. Uno scontro di politica estera all’interno di una sede istituzionale negli Stati Uniti».
Come è possibile leggere questa “sfida” di Netanyahu a Obama?
«Israele ha un rapporto particolare e unico con gli Stati Uniti. Sia per il peso delle lobby legate a Israele, sia per una narrazione costruita e accettata dai media sulla relazione tra Usa e Israele, che forse supera quella tra Usa e Gran Bretagna, o tende a eguagliarla. Netanyahu ha l’appoggio dei Repubblicani, ma anche di una grande fetta dei Democratici. Sessanta fra questi hanno disertato, ma molti di più sono quelli che hanno ascoltato il discorso, e al loro interno c’è una grande quota che sarebbe pronta a sostenere i Repubblicani al Congresso, per ottenere la maggioranza di 2/3 e superare un eventuale veto di Obama, al fine di sabotare i rapporti con l’Iran. Il collegamento sostanzialmente ideologico tra Israele e una grossa fetta della popolazione americana è stato solleticato da Netanyahu nel suo discorso, ad esempio quando ha parlato di una terra promessa per entrambi i popoli: si è rivolto a quella parte della società americana più religiosa che da un valore escatologico alla presenza di Israele nella vecchia terra promessa e ai rapporti che gli Usa hanno con lo Stato ebraico».
La leva dei due terzi è realmente percorribile?
«Si, anche perché come dicevamo Netanyahu si è presentato come un leader dell’opposizione a Obama, non come un capo di Stato straniero. Ha rafforzato, esaltato, consolidato la volontà di quella parte dei parlamentari americani che stanno realizzando questa manovra. Il 24 marzo ci sarà una scadenza molto importante, la scadenza di un nuovo round nei negoziati, che nelle intenzioni di Obama dovrebbero dare il via a un accordo definitivo con l’Iran, che dovrebbe sfociare a giugno nell’eliminazione delle sanzioni. Ma i Repubblicani stanno trattando una bozza di nuove sanzioni, con l’appoggio di una parte dei democratici. Un altro progetto è quello di far passare una legge che permetta al Congresso di avere un potere di approvazione o veto sugli accordi che Obama prenderà con l’Iran. Se queste cose passano con la maggioranza dei 2/3 Obama sarà impotente nel far accettare la sua linea di accomodamento con l’Iran».
Secondo Obama non c’è altro modo di arrivare a una soluzione
«A un certo punto bisognerà uscire da una situazione di tensione, che anche adesso c’è, anche se non si sta manifestando in uno scontro aperto: ci sono sanzioni da anni, periodicamente c’erano timori per eventuali attacchi e così via. Questa situazione di tensione non può durare in eterno, ci dovrà essere un momento di rottura che riporta alla normalità: può essere tragico, un conflitto che risolve le divergenze; può essere che l’Iran ceda su tutta la linea, oppure tramite un negoziato si può trovare una sistemazione che permetta la normalizzazione dei rapporti in base a un accordo, ovvero esattamente quello che sta facendo Obama. Ma è una soluzione che non lascia tranquilli non solo Israele, o l’Arabia Saudita: per loro il problema non è soltanto il nucleare iraniano in sé, ma il peso politico che l’Iran può acquisire se non sarà più ristretto da sanzioni».
Questo avvicinamento all’Iran è strumentale, ad esempio per la lotta all’Isis?
«No, non è strumentale. Di una soluzione negoziale al problema iraniano Obama ha parlato anche prima di diventare presidente al primo mandato, quindi è una strategia di lungo corso. Con l’Iran ci possono essere delle condizione tattiche o strategiche. Non va dimenticato che l’Iran è stato per molti decenni uno dei pilastri degli Stati Uniti nell’area, e non solo per ragioni di regime politico, ma anche per il peso e la posizione geografica in aree fondamentali, non ultima la vicinanza con l’area russa, sul Caspio, o per la presenza di molte risorse energetiche, che potrebbe fare dell'Iran un fornitore di gas e petrolio alternativo alla Russia per l’Europa».
Come si inserisce il discorso di Netanyahu all’interno della sua campagna elettorale? Un passo falso?
«Non credo che sia un passo falso, credo che in questo caso le logiche elettorali siano state subordinate a logiche politiche. La visita al Congresso non è stata fatta per mostrare che aveva il supporto degli Stati Uniti: è andato lì, dall’alleato che sembra discostarsi dalla politica di Israele, e ha ottenuto la standing ovation, ha parlato a sessioni congiunte: è stato un grosso spot elettorale per lui, in un momento in cui i sondaggi mostrano una certa flessione del Likud. Una mossa molto abile da parte sua».