Il doppio sguardo di Hannah Arendt
18 febbraio 2015
Il film di Margarethe von Trotta, giocato sull'opposizione cecità/chiaroveggenza della protagonista, mette a nudo la «mancanza di immaginazione» del male e l'insondabilità dell'amore
Dante avrebbe apprezzato le doti intellettuali di Arendt, ma non ne avrebbe condiviso la tesi di fondo: né il diavolo né l’inferno esistono e ciò che chiamiamo male è soltanto «mancanza di immaginazione», omissione di pensiero, incapacità di tornare sopra le proprie azioni, di riflettere su di esse e di giudicarle. La chiusura delle porte dell’avello comporta una duplice, scomoda conseguenza: l’umanizzazione dei carnefici, per cui questi devono essere considerati soggetti (individualmente) responsabili delle proprie azioni e non dei Mefistofele («Eichmann ist kein Mephisto!» sentenzia Hannah Arendt) che agitano i «vexilla regis inferni»; e l’umanizzazione delle vittime, per cui bisogna smettere di considerare queste come capri sacrificali. Dante non avrebbe potuto fare altro che opporsi agli «invidiosi veri» di Arendt.
Togliendoci qualsiasi appiglio metafisico, che non di rado è stato utilizzato quale comoda uscita di sicurezza, e mettendoci in guardia dalla tentazione di estetizzare il male, Arendt ci snida dalle menzogne in cui ci siamo appisolati; ci strappa di dosso gli alibi consolatori che preservano dal contatto diretto con il reale e ci chiama a responsabilità.
Uno di questi alibi, forse il più infido perché conferisce al male una statura mitica che lo sottrae alla comprensione, è il celebre undicesimo comandamento di Adorno, che vieta di fare poesia dopo Auschwitz.I n Hannah Arendt Margarethe von Trotta ha colto con grande acume come proprio l’enunciato adorniano fosse il bersaglio implicito della filosofa tedesca e come, se proprio di un undicesimo comandamento si doveva parlare, questo fosse l’obbligo di fissare lo sguardo sul male, per scrutarne gli abissi e per dare un nome ai mostri che vi albergano.
Von Trotta, però, si guarda bene dall’offrire un ritratto oleografico della sua eroina. L’intuizione più indovinata del film è quella di aver inserito continui rimandi alla storia d’amore tra Hannah e Martin Heidegger.
Quando la diciannovenne Arendt giunge all’Università di Marburgo, per seguire i corsi di Heidegger, è subito stregata dal carisma del maestro, il quale gradisce le attenzioni della giovane allieva e le ricambia – senza innamorarsene. L’autore di Essere e tempo, infatti, conosce solo l’amore di sé. Ha bisogno di essere idolatrato e si serve di Arendt quale reagente per meglio sentire l’intensità della vita. Leggendo alcuni passi dell’epistolario, si sorride dinanzi ai vezzeggiativi e alle espressioni poetiche usate da Heidegger, ma è un sorriso infettato di disgusto perché quelle righe sono la contraffazione, la caricatura liricheggiante della grande poesia tedesca, la cui assorta interiorità è stata pienamente colta dai Lieder. La relazione sentimentale è interrotta nel 1928 per volontà di Heidegger; pochi anni dopo, appena nominato rettore dell’Università di Friburgo, questi pronuncia il famigerato Appello agli studenti tedeschi con cui aderisce pubblicamente all’ideologia del Führer. Gli anni che seguono sono travolti dalla bufera della Storia: l’ascesa al potere di Hitler, l’esilio di Hannah prima a Parigi poi a New York, la guerra, i lager, la Shoah, la disfatta rovinosa della Germania. All’inizio degli anni ’50 è Arendt a riallacciare i rapporti. Alla sua mano tesa Heidegger si aggrapperà con slancio: per il Pastore dell’Essere, come egli amava definirsi, Hannah è un aiuto insperato per smacchiare la coscienza da alcune infamie che gli sono costate la sospensione dall’insegnamento. Hannah crede, o finge di credere, alle patetiche mistificazioni del maestro e lo aiuta a essere riabilitato. Ancora una volta ebbero la meglio gli insondabili enigmi del cuore, che spingono un essere ad amarne un altro, pur vedendo quanto sia piccolo, meschino e falso. Tanto più insondabili, questi enigmi, se solo si considera che quello di Arendt era un occhio implacabile, pronto a scovare le falsificazioni della Storia e a smascherarle con intrepido impeto umano e intellettuale.
Nel film di von Trotta la figura di Hannah Arendt è tutta giocata sulla coppia oppositiva chiaroveggenza/cecità. Chiaroveggente è la filosofa quando studia le parole e i gesti di Eichmann e capisce che il male, a differenza del bene, non è mai ‘radicale’, perché non possiede profondità (quella profondità che soltanto il pensiero può offrire), ma soltanto ‘estremo’; tuttavia ella è cieca dinanzi alla grettezza e all’opportunismo di Heidegger, verso cui, nonostante tutto, continua a provare un amore che quasi trascolora nella connivenza.
Alla fine il piccolo burocrate dello sterminio che, dietro la ‘gabbia di vetro’, si asciuga il naso che gocciola non è poi così diverso dal sublime pensatore che, come un Wanderer romantico, se ne va a zonzo, «solo et pensoso», per la Foresta Nera nel costume folcloristico, «mesurando a passi tardi e lenti» le vaste plaghe dell’Essere. Anche se Heidegger non ha commesso i delitti di Eichmann, con lui, tuttavia, condivide l’incapacità di ritornare sul proprio passato per interrogarlo, giudicarlo e, se del caso, condannarlo; l’incapacità, in una parola, di pensare e di metter radici in se stessi che è l’anticamera della «banalità del male».