La Riforma del XVI secolo e gli ebrei
26 gennaio 2015
Agli albori del XVI secolo, al di là della loro reale presenza e della sua consistenza, gli ebrei sono onnipresenti nel discorso cristiano e nell’immaginario collettivi
Dopo che la grande chiesa, respingendo le tesi di Marcione, mantenne la Scritture ebraiche, il nostro Antico Testamento, come testo fondante, divenne per così dire necessario dire qualcosa sugli ebrei praticamente in ogni sermone, in ogni commento biblico e in ogni opera teologica. Gli ebrei venivano affrontati innanzitutto come protagonisti delle vicende bibliche, tanto dell’Antico quanto del Nuovo Testamento. La lettura dell’Antico Testamento avveniva, come comincia a farsi nel Nuovo, a partire dall’idea che esso fosse adempiuto in Cristo.
Si presentava poi un altro aspetto: la cristianità che aveva convertito tutto il mondo allora conosciuto continuava ad avere nel suo seno una minoranza che alla “verità” cristiana non aveva aderito e che per di più continuava a sostenere e ad argomentare la sua irriducibile differenza richiamandosi a quello stesso Antico Testamento che per i cristiani testimoniava inequivocabilmente di Gesù Cristo.
La vittoria del cristianesimo e la conseguente instaurazione di un regime di cristianità si tradussero poi nell’adozione di norme per la regolazione della presenza degli ebrei. In estrema sintesi, le risposte cristiane ai problemi appena menzionati, erano le seguenti.
Con la mancata adesione al cristianesimo della maggior parte degli ebrei, si affermava che l’Antico Testamento avesse i suoi unici e veri eredi tra i cristiani. Gli ebrei avevano rinnegato la loro propria storia e ne erano così stati estromessi. La chiesa aveva sostituito Israele. La sopravvivenza di Israele veniva interpretata con la nozione, agostiniana, del “popolo testimone”, emblematicamente espressa nelle raffigurazioni di due donne all’ingresso di molte cattedrali: quella a capo chino, umiliata, simbolo di Israele; quella incoronata e sicura, simbolo della chiesa. Le immagini delle due donne valevano come conferma della chiesa e come richiamo alla severità di Dio nei confronti di chi abbandona le sue vie.
Sul piano giuridico, la condizione degli ebrei era legata alle concessioni accordate dalle autorità cristiane. La stigmatizzazione religiosa degli ebrei comportava la diffusione di immagini demonizzanti. Gli ebrei, costretti all’esercizio del prestito, erano bollati come affamatori del popolo cristiano. Il loro esercizio dell’arte medica, pur ambito dai potenti, era accompagnato dal sospetto di tramare, in realtà, contro la salute dei cristiani. Li si accusava di essere una potenza diabolica, responsabile, ad esempio della trasmissione della peste. Si pensava che amassero rubare ostie per “martirizzarle”, accusa che andò di pari passo con l’affermazione della dottrina della transustanziazione e con l’istituzione della festa del Corpus domini; racconti di ebrei che vedevano sanguinare davanti a loro l’ostia che avevano martirizzato erano una autorevole conferma della dottrina della chiesa. Li si accusava di rapire bambini cristiani per usare il loro sangue per impastare le azzime o per lenire il “fetore” che veniva attribuito loro. Un utile mito di fondazione per santuari meta di pellegrinaggi o per sbarazzarsi degli ebrei con cui si era indebitati, come ebbe a notare A. Osiander. La loro lettura della Bibbia ebraica, conosciuta attraverso le opere di polemisti cristiani, spesso ebrei convertititi, era bollata come perversa alterazione di un senso altrimenti chiarissimo.
La condanna teologica degli ebrei come impenitenti travisatori dell’Antico Testamento e come popolo decaduto era largamente diffusa, condivisa da umanisti, vecchi credenti, persino dagli ebraisti cristiani: da un lato essi, sulla spinta dell’Umanesimo e della Riforma, si appassionarono allo studio della lingua e delle tradizioni ebraiche, intese come mezzo necessario ad una migliore comprensione della Bibbia e del cristianesimo; dall’altro, si espressero in termini polemici nei confronti dell’ebraismo contemporaneo, giudicato senza futuro a meno di una conversione al cristianesimo.
La Riforma mutò la comprensione dell’ebraismo? È ovviamente difficile dare una risposta netta e univoca. Vorrei però tentare un bilancio. La Riforma – con la sua scelta di basare ogni affermazione teologica soltanto sulle Scritture – promosse lo studio dell’Antico Testamento ebraico (cioè senza i libri deuterocanonici), riscoperto nella sua lingua originale e compreso nel suo senso letterale, per quello che esso dice, senza interpretazioni allegoriche, statutariamente sovraordinato alle interpretazioni tradizionali e magisteriali. Si trattava cionondimeno di un Antico Testamento “a precomprensione cristiana”, se così posso dire, sia nella sua lettura luterana (promessa di ciò che sarebbe stato pienamente rivelato e adempiuto in Cristo), sia in quella riformata (documento dell’unico patto stabilito da Dio fin dall’inizio e pienamente compiuto in Cristo). La lettura cristiana era considerata l’unico esito legittimo dell’Antico Testamento, quella ebraica un’alterazione del suo messaggio.
Certamente si attenuano sul fronte della Riforma gli aspetti dell’antigiudaismo popolare; la forte critica alla cristianità romana comporta talora parole a favore degli ebrei, come fa ad esempio Lutero nel 1523; d’altro lato, proprio la riscoperta della Bibbia ebraica scaturisce in polemica antiebraica.
A causa delle riprese degli scritti antiebraici di Lutero avvenuta durante il nazismo, si è diffuso lo stereotipo di un processo lineare “da Lutero a Hitler”. In realtà Lutero non disse nulla di sostanzialmente diverso da quello che aveva affermato la cristianità medioevale e che era condiviso dalla maggioranza dei suoi contemporanei. Ci fu in lui indubbiamente un’acredine crescente nei confronti degli ebrei, che culminò nel suo scritto del 1543 “Degli ebrei e delle loro menzogne”. La storia delle ripercussioni di questi scritti non è né continua né lineare e la tesi di un Lutero padre del moderno antisemitismo deve essere lasciata cadere. Il pathos della sua polemica richiede però una spiegazione storica. Per citare un recente studio di T. Kaufmann, si trattò per lui di una “battaglia finale per la Bibbia”. Per chi aveva puntato tutto sulla Bibbia, in particolare sull’Antico Testamento, come unica testimonianza normativa a Cristo, per chi forse aveva sperato che la riscoperta dell’Evangelo avrebbe potuto attrarre chi non aveva mai incontrato Cristo a causa della infedeltà della Chiesa, la constatazione che gli ebrei leggevano i passi (da Gen 3,15 ad Ag 2,9, passando per I s 7,14) che la cristianità comprendeva come manifeste attestazioni di Cristo, aveva un effetto dirompente.
Sempre in “Degli ebrei e delle loro menzogne”, Lutero si rivolge alle autorità con la richiesta di provvedimenti antiebraici: chiusura delle sinagoghe, distruzione degli scritti ebraici, misure vessatorie, cacciata degli ebrei. Meno noto è il fatto che Martin Bucero (Strasburgo) e H. Bullinger (Zurigo) proposero provvedimenti analoghi. L’idea era che non si potesse tollerare, e di conseguenza favorire, la blasfemia che si attribuiva agli ebrei, da parte di un’autorità che comunque doveva essere cristiana.
Da un lato, dunque, la Riforma del XVI secolo non uscì dalle coordinate ereditate dalla tradizione cristiana. Dall’altro, però, cominciò proprio con la Riforma un lungo cammino che ci ha portato alle mutate prospettive di oggi.
Il principio del Sola Scrittura e l’opzione per una esegesi filologica sono infine approdati a un approccio storico e critico alla Bibbia, per cui oggi è chiaro che la Bibbia ebraica è a monte di almeno due storie dell’interpretazione, una cristiana a partire dal Nuovo Testamento, una ebraica a partire dall’ebraismo farisaico e poi rabbinico.
Le sanguinose guerre di religione, i dibattiti sulla tolleranza e le rivoluzioni americana e francese, hanno condotto a concludere che le condizioni della tolleranza prima e della democrazia poi devono statutariamente prescindere da una verità religiosa vincolante per tutti, che dovrebbe perseguire come blasfemi quelli che non vi si adeguano.
In questo contesto, val forse la pena osservare le ragioni per cui, sul fronte riformato, “tra gli eredi di Calvino”, si sviluppò una certo filo-ebraismo, percepibile soprattutto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, nei Pesi Bassi. A determinarlo furono soprattutto due fattori: da un lato, la valutazione positiva dell’Antico Testamento, come parola sempre attuale dell’unico patto di Dio, ampliato, ma non abrogato; dall’altro la condizione spesso diasporica e perseguitata delle chiese riformate. Tutto ciò favorì un’identificazione di quelle comunità con l’Israele biblico: anch’esse lessero la propria storia in termini di esilio, di marcia nelle prove e nelle tentazioni del deserto, di liberazione, di conduzione verso una terra promessa. Per loro, la storia d’Israele divenne il modello per comprendere la loro vicenda e cominciarono a guardare agli ebrei come a coloro che la storia dell’Antico Testamento ancora vivevano.
A cinquecento anni di distanza, non si tratta di pronunciare giudizi “morali” sulla Riforma, che come ogni altro fenomeno del passato va letto storicamente. La memoria deve spingerci a chiederci che strada vogliamo prendere noi, con quali continuità con la Riforma in cui vogliamo continuare a riconoscerci, ma anche con quali cambiamenti di percorso a cui ci sentiamo chiamati, proprio da quella Scrittura che la Riforma ricollocò al centro di ogni discorso e di ogni agire cristiani.