Antiantigone
20 gennaio 2015
L'affermazione di un diritto non esaurisce le possibilità di scelta
La vicenda Charlie Hebdo è emblematica di alcune contraddizioni tipiche di questo inizio millennio. In primo luogo: la confusione tra religione, fede, sacro, Dio. L’obiettivo delle vignette ritenute dissacranti non era «il sacro» (che per i protestanti neanche esiste: solo Dio è sacro), ma la commistione della religione con l’etica e con la politica. Peccato che di ogni erba si faccia un fascio e, oltre al potere religioso, si sia recata offesa anche alla fede delle persone comuni, non responsabili degli eccessi delle loro autorità ecclesiastiche.
Come ha ben detto Michele Serra (Vanity Fair, 21 gennaio), «la satira religiosa è satira sugli uomini». Gli antichi, dice il giornalista, avevano dato credito a Dio: che arma la mano di Abramo contro il figlio Isacco, ma poi la ferma in tempo: «anche quei nostri rudi antenati –prosegue uno dei pochi interventi «teologici» che ho potuto leggere in queste settimane – sospettavano che Dio fosse più dialettico degli uomini». Invece no, la fede, assimilata in toto all’esercizio del potere, per i vignettisti sembra essere sempre da esecrare, senza scandagliarla, senza lasciarsene interrogare.
Tutti condanniamo il terrorismo; tutti pretendiamo dai governi che garantiscano la libertà d’espressione e di stampa. Ma questo non basta, non chiarisce tutto. Perché un conto è pretendere dallo Stato e dalla legislazione le garanzie democratiche «minime»: la libertà d’espressione ne fa ampiamente parte. Un conto è la deriva che sta prendendo, oggi, la nostra società: una società che richiede al legislatore di trasformare le legittime aspirazioni in desideri, e i desideri in diritti riconosciuti. Con una conseguenza pericolosa: che quando una pratica o un’aspirazione viene riconosciuta come diritto, ed è quindi garantita per legge, automaticamente siamo portati a pensare che, proprio in nome di questo diritto, qualsiasi idea sia degna di essere espressa; l’offesa recata ad altri è un effetto collaterale. Non ci si chiede più se ciò che stiamo per fare sia ben fatto o meno: la legge lo consente, e dunque perché no? In materia di bioetica si pongono gli stessi problemi: si può fare, e dunque perché no?
Questo a mio parere è un eccesso di fiducia nello strumento della democrazia, che può avere, e ha, le sue ragioni. Ma i protestanti dovrebbero ricordarsi che l’esercizio della responsabilità personale, mettendoci sempre di fronte anche a Dio, sta al di sopra anche della democrazia. Non tutto ciò che si può fare (tecnicamente), ed è lecito fare (giuridicamente) ha automaticamente anche un senso. Il senso glielo dobbiamo dare noi: ognuno e ognuna siamo chiamati a interrogarci in merito; ognuno e ognuna dovremmo chiederci se intendiamo colpire il potere o tutti i credenti. Perché autorevoli intellettuali (fisici, matematici, biologi) svillaneggiano i credenti in Cristo come se fossero dei sottosviluppati ignoranti, dei «bambinoni»: sanno di che cosa parlano? Io non mi azzardo a discettare di fisica delle particelle, non ne ho la competenza, e dunque, per favore…
Gli antichi greci e i nostri fratelli ebrei di un tempo avevano ben chiaro che la convivenza umana dovesse essere regolata da norme ben precise, e che una certa gerarchia regolava anche il loro rapporto con Dio (Giobbe): e tuttavia sapevano anche che il senso dell’esistenza è qualcosa di molto più ampio e ricco di ogni codice. Così Antigone si ribella alle leggi umane, e ritiene che il cadavere del fratello debba avere degna sepoltura, nonostante il parere avverso del re Creonte. Una legge morale «superiore», che per i cristiani diventa la volontà di Dio, in alcuni casi è più importante alle leggi degli uomini. Allora oggi vorrei vedere un mito di Antigone rovesciato: che qualcuno, in nome di una «legge superiore», impalpabile, che percepiamo per fede, nell’intimo, rinunci una volta a esercitare un proprio diritto e, nello sforzo di parlare secondo la prima persona plurale (F. Sciotto, Riforma n. 2, p. 14), chiedendosi se quel diritto non vada a ferire qualcun altro. Non sarebbe un segno di debolezza, ma di grande forza: sarebbe il segnale che, riconoscendo l’importanza delle garanzie date per legge, ogni volta che ci viene chiesto di scegliere (Deut. 30, 19) ci fermiamo e ci chiediamo se ciò abbia un senso. Si tratta pur sempre di dare corpo, realtà alle parole, riconoscendo che esse sono «qualcosa che alberga nel profondo di ognuno di noi» (S. Baral, Riforma, n. 2. p. 14). Questo lo può dire la nostra coscienza, alla quale la cultura protestante rimanda volentieri; e se non ci basta lo possiamo chiedere, in preghiera, al Signore, certi che risponderà.