Il pericolo degli slogan
16 gennaio 2015
Alcuni pensieri su «Charlie Hebdo», la libertà d’espressione e le leggi liberticide
Come cambia il vento. Qualche mese fa, paesi come il Regno Unito e l’Italia discutevano se criminalizzare l’istigazione all’omofobia e alla transfobia. Oggi, dopo l’attentato al settimanale umoristico Charlie Hebdo, la parola d’ordine, nei media e nel discorso politico, sembra essere: la libertà d’espressione è assoluta. Eppure, pochi giorni dopo il bagno collettivo di retorica sulla libertà d’espressione, il discusso comico francese Diudonné è stato arrestato con l’accusa di apologia del terrorismo per aver postato su twitter la frase: “je suis Charlie Coulibaly”.
Se è innegabile che nessuna espressione d’opinione, in nessuna forma, può giustificare un plurimo omicidio (ma non dovrebbe giustificarlo neanche il crimine più efferato) è al tempo stesso legittimo porsi alcune domande sui limiti della libertà d’espressione, anche con riguardo alla forma della caricatura umoristica: questa libertà è davvero assoluta, è bene che lo sia, e, infine, l’applicazione degli eventuali limiti è selettiva o uguale per tutti? I due livelli (la condanna di un omicidio arbitrario e i limiti della libertà d’espressione) sono distinti, e confonderli non aiuta a comprendere.
In primo luogo bisogna sfatare un mito, rinforzato dalla retorica post-attentato degli ultimi giorni: la parola, e persino l’immagine in forma di caricatura, non sono sempre innocenti ed innocue. La comunicazione può umiliare ed uccidere. Un giurista e sociologo dello spessore di Gunther Teubner ci ricorda che, per quanto il diritto possa solo attribuire ad una “persona” l’attentato al corpo e alla mente di un individuo, ciò che spesso tortura, umilia ed offende l’essere umano è la “matrice anonima” della comunicazione.
La comunicazione crea la realtà in cui viviamo. Sono gli slogan che circolano nella nostra società a fare di un omosessuale un lussurioso ammalato, di una donna una creatura debole e stupida, di un ebreo un veniale senza cuore, di un musulmano un terrorista. Inoltre la comunicazione verbale o scritta dà spesso vita ad altre forme di comunicazione, aventi una ricaduta fisica sull’essere umano. Il fatto di presentare l’elettroshock o la lobotomizzazione come cure mediche ha portato milioni di essere umani ed essere torturati. Il fatto di considerare l’omosessualità un crimine ha portato ad imprigionare o castrare chimicamente degli esseri umani. Il fatto di considerare un essere umano alla stregua di una merce l’ha reso schiavo.
Presentando il suo libro Les âmes blessées, nel corso di una trasmissione televisiva francese, il neuropsichiatra Cyrulnik ha commentato gli attentati di Parigi sottolineando come ogni tipo di integrismo, dal nazismo all’islamismo radicale, si diffonda grazie alla comunicazione di slogan semplici che il ricevente ripete meccanicamente, illudendosi di aver compreso un concetto. E, a meno che non vengano istituzionalizzati dei meccanismi sociali capaci di limitare questa diffusione, gli slogan continueranno ad essere riprodotti.
In molti casi, la risposta alla comunicazione nociva è stata formulata in termini di criminalizzazione di alcune condotte, dall’hate speech, all’istigazione all’odio razziale, o fondato sull’orientamento di genere, o sulla preferenza sessuale, o sulla religione, fino al crimine di negazionismo.
Tale approccio sembra in linea di massima aver superato con successo il vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo. Certo, la libertà d’espressione implica il diritto di esprimere opinioni che turbano una parte della popolazione, ma non può arrivare fino a giustificare la diffusione del razzismo o dell’odio per una certa categoria d’individui. Una caricatura può per esempio portare alla condanna del suo autore quando eccede ciò che è tollerabile in un dibattito politico, per esempio perché giudica positivamente la violenza perpetrata su migliaia di vittime e un attentato alla loro dignità.
Tutto bene in teoria, ma in pratica i problemi sono molteplici, soprattutto per quanto attiene alla satira. Una cosa è infatti un commento in cui un’opinione viene sviluppata per una o più pagine, con argomenti ed espressioni valutabili da parte del giudice. Ma vogliamo davvero una società in cui il potere legislativo (a monte) e quello giudiziario (a valle) determinino che cos’è satira e cosa non lo è, su cosa si può scherzare e su cosa no, su cosa si può provocare e su cosa no, sulla base di un disegno, una battuta, o un tweet? E poi, non c’è il rischio di tacciare ogni opinione non politicamente corretta come “razzista”, “terrorista”, “antisemita”?
In fondo, i filtri contro la comunicazione nociva non devono essere necessariamente giuridici. Un onesto dibattito culturale può essere un antidoto ancora migliore di una sanzione penale, perché obbliga l’autore di un articolo, un libro o un disegno a prendere in considerazione le critiche e le sensibilità altrui, e a difendere le proprie posizioni. Dove i limiti non sono imposti dalla legge, essi possono essere fissati da una norma sociale, la cui violazione sarebbe sanzionata dallo sdegno generalizzato.
Certo, in questo caso, il problema è la capacità di condurre un dibattito culturale alto, serio, non viziato da interessi politici o economici di varia natura. Nonché l’esistenza di una popolazione educata al rispetto delle sensibilità minoritarie, ed alla responsabilità nell’assenza di regole giuridiche. Si può quindi seriamente dubitare della maturità della società italiana in questo senso, soprattutto dopo aver letto i commenti faziosi, per non dire irresponsabili, di certi “opinionisti” sui drammi di Parigi.
A questo punto, devo ammettere di non avere una ricetta. Entrambi i modelli appaiono difendibili e supportati da argomenti convincenti. Va poi riconosciuto che in nessuna democrazia liberale la libertà d’espressione è assoluta ed illimitata. Viviamo in una società in cui esistono diversi ibridi, miscele più o meno libertarie dei due modelli.
È tuttavia importante che, qualsiasi compromesso si trovi tra le due esigenze, gli stessi limiti, e le stesse libertà tutelino ognuno allo stesso modo. Spesso i tabù di una cultura, una tradizione, una società, vengono trasformati in limiti impliciti alla libertà d’espressione, viziando il giudizio di cosa è considerato accettabile e cosa inaccettabile. Ciò è particolarmente grave in una società “plurale”. Se le sensibilità sono molteplici, non è pensabile difendere soltanto quella maggioritaria e prevalente. In queste ore, molti, in Francia e altrove, si chiedono per esempio se antisemitismo e islamofobia abbiano la stesso peso quando operano da limiti alla libertà d’espressione.
In un articolo del 13 gennaio, l’autore israeliano Shlomo Sand scrive per esempio che, mentre l’immagine di Maometto con una bomba sul turbante (facilmente interpretabile come “islam = terrorismo”) viene innalzata a simbolo della democrazia e della libertà d’espressione, nessuno “né il giornale danese, né Charlie si sarebbe permesso di pubblicare una caricatura raffigurante il profeta Mosé, con una kippa e delle frange rituali, rappresentato come un usuraio dall’aria furbastra, all’angolo di una strada”. L’impressione è rinforzata da un articolo di Le Monde del 2010 (in queste ore riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica francese), in cui si ricorda la condanna di Charlie Hebdo per il licenziamento illegittimo del disegnatore Siné, colpevole di aver ironizzato sulla conversione di Jean Sarkozy all’ebraismo.
Dal punto di vista europeo, una particolare sensibilità verso l’antisemitismo è comprensibile su un piano storico e culturale. Esso è stato e continua ad essere uno degli aspetti più vergognosi della storia europea. Come scrive Shlomo Sand, è quindi giusto che la società europea rifiuti la rappresentazione offensiva della religione ebraica. Quello che lui ed altri si chiedono è perché gli stessi limiti e la stessa attenzione non valgano per i discorsi chiaramente discriminatori rivolti ad altre minoranze religiose. Negli ultimi giorni, molti quotidiani ed esponenti politici europei (anche italiani) hanno gareggiato nel diffondere l’idea che equiparare l’Islam al terrorismo e all’assassinio, e descriverlo come l’espressione di una “civiltà inferiore”, fosse segno di libertà, civiltà e coraggio civico, (contro uno «stupido buonismo», scrivono alcuni).
Mentre costoro pontificavano, in Francia, nelle ore immediatamente successive all’attentato a Charlie Hebdo, qualcuno appiccava il fuoco a due moschee e un chiosco-kebab. Gli slogan violenti e razzisti prendevano vita, bruciando, umiliando e ferendo. Non si può pensare che, in una “società democratica”, a fronte di tali avvenimenti regni la più totale assenza di responsabilità, tanto a livello culturale, quanto politico e giuridico. In un sistema giuridico che ha scelto il modello della criminalizzazione, il reato di istigazione all’odio razziale e religioso deve valere anche quando l’offesa è diretta verso l’Islam, anche e soprattutto a fronte di una potente e diffusa retorica anti-islamica. E se si preferisce il modello dell’autolimitazione responsabile, un giornale che (legittimamente) non vuole ironizzare sulla conversione di qualcuno all’ebraismo dovrebbe capire che far passare tutti gli islamici per potenziali terroristi è altrettanto grave. Come ricorda la Corte di Strasburgo, in caso di “tensione e di conflitto” bisogna evitare che i media diventino “un supporto alla diffusione di discorsi d’odio” .
È appena il caso di ricordare l’importanza della presunzione di innocenza, che è un diritto fondamentale. Si può almeno dubitare della compatibilità con la “società democratica” di un dibattito pubblico in cui ogni musulmano è presentato come un potenziale criminale in ragione della sua fede. Inoltre, il senso profondo della libertà d’espressione risiede nella tutela del debole che critica il potere. Tale visione è supportata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per questo, se la stessa libertà viene invocata dal giornalista influente dal personaggio politico per mettere alla gogna una minoranza religiosa, o, in generale, la categoria degli immigrati, non solo tale comportamento non ha nulla di civico, ma bisogna allarmarsi, essere sospettosi. Riempirsi la bocca di libertà politica per diffondere una visione razzista e discriminatoria del “prossimo” (per usare una terminologia biblica probabilmente ignorata da chi sventola la cristianità come mera bandiera identitaria) significa abusare di un diritto.
Allo stesso modo, bisogna sospettare di quei governi che, approfittando dell’onda emotiva prodotta dagli attentati, cercano di far passare riforme che riducono la libertà dell’individuo ed aumentano l’invasività dello Stato. In queste ore si parla senza timore di sospensione o modifica del trattato di Schengen, di vietare l’uso di applicazioni per smartphone come la celebre WhatsApp (perché non permette ai servizi di sicurezza di leggere i messaggi privati dei cittadini), di ridurre la protezione della privacy in relazione ai dati sensibili in possesso delle compagnie aeree, del potere delle autorità di polizia postale di censurare un sito internet senza dover chiedere l’autorizzazione del giudice, e così via.
Che tutto ciò sia oggi giustificato in nome della tutela della libertà individuale e dei diritti umani deve far riflettere. In gioco c’è infatti la tutela di quella sfera privata dell’individuo che dovrebbe distinguere una democrazia dai regimi che democratici non sono. Sono i regimi liberticidi quelli in cui ogni aspetto della vita di un individuo ha rilevanza pubblica (in un regime totalitario, tutto è politica; in una teocrazia, tutto è religione). In una democrazia, invece, non siamo tenuti a diventare completamente trasparenti di fronte alla società ed all’autorità pubblica.
Eppure, oggi, nel nome della lotta al terrorismo, qualcuno vorrebbe fare di noi delle case di vetro che rimandano l’eco degli slogan razzisti della maggioranza, spacciati per una coraggiosa manifestazione della libertà d’espressione. Riflettiamoci.