Un Dio che ci ama e vuole che pensiamo a Lui
16 dicembre 2014
La prima parte dello spettacolo di Roberto Benigni sui Dieci Comandamenti
Roberto Benigni è un comico, e come tale ha delle capacità che altri non hanno: per esempio quella di intrattenere un pubblico in sala e milioni di spettatori televisivi parlando di argomenti più che seri. È molto difficile, al contrario, che un attore drammatico riesca a far ridere. Così anche lo spettacolo sui Dieci Comandamenti (per il quale fra i suoi consulenti ha avuto anche il prof. Paolo Ricca e Elvio Fassone, già senatore di Pinerolo, che già aveva fornito all’attore le basi per lo spettacolo sulla Costituzione repubblicana) ha confermato la sua propensione a rinnovare l’educazione morale e forse anche spirituale del nostro Paese.
Benigni è un comico, e si serve degli strumenti e delle tecniche proprie del suo mestiere: capacità di creare immagini forti, paradossali, ma soprattutto la propensione ad accostare elementi e riferimenti grotteschi e anche triviali a una materia che di per sé è invece elevata. La comicità, infatti, vive di sproporzioni: gesti quotidiani e quasi normali che portano a conseguenze disastrose (si pensi ai comici del muto, a Stanlio & Ollio), scherzi e oltraggi accumulati in una serie di «crescendo» che provocano reazioni a catena. Ma a ben pensarci il linguaggio biblico, di alcune parti della Bibbia perlomeno (le grandi narrazioni della Genesi e dell’Esodo, ma anche le invettive) sono efficaci e rendono l’idea proprio perché aumentano sempre più il grado della loro potenza visiva – basterebbe la descrizione delle piaghe d’Egitto a dimostrarlo. Per questo Benigni fa precedere la trattazione «seria» da ampie introduzioni «di attualità», in cui porta la sua satira ai potenti di turno, in questo caso con i riferimenti alla Roma di oggi, scoperta nella sua propensione al malaffare. Così tanto più evidente risulta, dopo, l’elevazione ad argomenti di portata morale e spirituale importante.
Benigni affronta la materia, tutte le materie che fin qui ha proposto nel suo teatro degli ultimi anni (un teatro «civile» come quello di Marco Paolini) dopo una lunga e approfondita preparazione, ricca di riferimenti, molto interiorizzata; lascia sedimentare le considerazioni sue e le suggestioni che riceve dai consulenti, se ne appropria e le tratta con esuberanza ma anche, parrebbe, «per sottrazione»: dalle sue parole capiamo che il gesto di un Dio che dà una norma al suo popolo per amore di quest’ultimo è una gioia per l’attore stesso: un sentimento incontenibile, che per essere trasmesso, si deve tradurre in frasi e gesti comunicabili. Così Benigni sembra Michelangelo di fronte ai massi di pietra da cui ricavò, lasciandoli in parte incompiuti, i «Prigioni» per la tomba di Giulio II: come a dire: quel che voglio raccontarvi è troppo bello (Benigni dice spesso la parola «troppo»), è troppo grande quel gesto, perché io possa spiegarvelo e perché noi, qui dalla terra, possiamo rispondere adeguatamente a Dio. Eppure questo slancio con cui Dio si rivolge all’umanità, un gesto che ha in sè anche la gelosia dell’innamorato, sarà ricambiato in qualche modo dall’uomo, per esempio nel racconto di Elia (I Re 19, 10).
Ma l’elemento più interessante e su cui riflettere, nella prima serata (che dopo l’introduzione generale ai Comandamenti ha affrontato solo i primi tre del Decalogo) Benigni lo ha espresso parlando dell’idolatria e del divieto di raffigurare Dio. Ha accennato (senza approfondirlo) al fatto che non tutte le chiese cristiane sono concordi nell’importanza da dare a questa indicazione, ma ha fornito, forse non intenzionalmente, una direttiva importante per chi governa e chi fa scuola. Il Dio che non vuole essere raffigurato – ha detto – è un Dio che vuole essere, invece, pensato; che vuole essere nella mente e nel cuore di ognuno e ognuna di noi; che spinge uomini e donne a utilizzare i mezzi di cui Egli è stato prodigo costruttore: anche, quindi, la ragione e il pensiero; anche la capacità di fare ragionamenti, di non fermarsi al dato dell’evidenza, alle apparenze, all’immagine, che tanto oggi influenzano, superficialmente e banalmente, le nostre vite.
L’attore non l’ha detto, ma la conferma sta nella lettera agli Ebrei (11, 1): «Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono». E il discorso riguarda tutti, credenti e non credenti. Ci pensi chi deve riformare o ricostruire la scuola di domani ma anche di oggi. Da qui si deve ripartire, con il concorso di tutti: altrimenti avremo ancora e più che mai bisogno di un attor comico che ci costringa a «ripassare» le basi del vivere civile.