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La bandiera bianca del cristianesimo

Rifiutata a Palermo la messa pubblica per la cresima del figlio di Graviano, mandante dell’omicidio di don Pino Puglisi. Le colpe dei padri ricadono sui figli?

Questa è una vicenda delicata, con diversi livelli di comprensione e stratificazioni storiche, che riguarda una chiesa cui non appartengo, ma che è nostro partner ecumenico qui a Palermo. Ed è col rispetto e la delicatezza dovuta ad un compagno di strada che scrivo queste righe.

In città il liceo dei gesuiti prepara gli studenti a una cresima “di classe”, cioè la classe di catechismo coincide con la classe di scuola. Tra i cresimandi di quest’anno nel liceo c’è il figlio del boss mafioso Graviano, condannato quale mandante dell’omicidio nel settembre 1993 di Pino Puglisi, parroco di Brancaccio, elevato agli altari dalla chiesa cattolica appena un anno fa. La messa pubblica per le cresime, celebrata dal vescovo, si è svolta sabato scorso nella Cattedrale di Palermo, proprio dov’è custodita la salma di don Puglisi. Per evitare strumentalizzazioni — comunque inevitabili — il vescovo decide di “scorporare” la cresima del ragazzo figlio del boss da quello dei suoi compagni di scuola e di catechismo: sarà celebrata — non si sa ancora quando — in forma privata.

È una storia che comincia male. Comincia con il peccato: l’odio verso il prossimo e verso Dio, strutturato dalle organizzazioni criminali. A complicare il quadro subentra il fatto che per troppo tempo la chiesa cattolica ha avuto un rapporto poco chiaro con queste organizzazioni. Ricordiamo lo storico scontro a Palermo nel 1963 tra il pastore valdese Panascia e il cardinale Ruffini, in cui quest’ultimo negava l’esistenza stessa della mafia.

Don Puglisi predicava l’alternativa cristiana alla violenza, alla sopraffazione e alla disperazione. In altre parole — più “teologiche” — annunciava il giudizio di Dio sul peccato umano insieme all’apertura della grazia. Il peccato organizzato non poteva accettarlo. Secondo alcuni, l’omicidio di Puglisi si situava nel quadro più ampio dell’importante cambio di relazione tra mafia e chiesa cattolica. Dopo decenni di opacità, la chiesa cattolica prendeva infatti una posizione ufficiale chiara e dura nei confronti della criminalità organizzata. L’anatema di Giovanni Paolo II contro i mafiosi alla Valle dei Templi a maggio 1993, gli attentati a Roma alle chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano nel luglio dello stesso anno e poi l’omicidio di don Puglisi farebbero parte di tale quadro.

I fantasmi di ventuno anni fa sono tornati quando si è posta la questione della cresima di un ragazzo, “colpevole” di essere il figlio del mandante dell’omicidio Puglisi, pur non essendo ancora nato anni all’epoca dei fatti.

È chiaro che sia importante per la chiesa cattolica evidenziare quel punto di non ritorno del 1993. Tuttavia si pongono delle domande. Scorporare la cresima di questo ragazzo 17enne è in linea con la riscoperta mission antimafia della chiesa cattolica a Palermo? Ha senso allontanarlo dal gruppo perché suo padre ha compiuto degli atti terribili, imperdonabili per la società — che ha comminato l’ergastolo — e in odium fidei per la chiesa cattolica? Non sarebbe stato forse bene vedere questo ragazzo testimoniare pubblicamente, insieme agli altri, come gli altri, di volersi impegnare ad una vita cristiana coerente con gli insegnamenti evangelici? Non sarebbe un segno della grazia di Dio, dell’amore che trionfa sul peccato e sulla morte, che il figlio di un boss possa testimoniare queste cose, proprio nel luogo dov’è custodito il corpo del parroco che suo padre ha fatto ammazzare?

Con la separazione del ragazzo dagli altri, il messaggio che passa è: «Non importa cosa tu credi, non importa se tu sei diverso da tuo padre, non importa se tu credi o meno in Gesù: tu sei il figlio del boss e per noi tale resterai tutta la tua vita». Col dovuto rispetto, questa è la bandiera bianca del cristianesimo. Don Pino Puglisi lottava invece proprio per dire alla mafia: «Questi non sono figli tuoi, ma di Dio». Paradossalmente, è proprio per lui, per la memoria del prete che è morto per dare una speranza ai giovani della sua parrocchia, che ancora oggi è fonte di ispirazione per molti, che il ragazzo avrebbe dovuto essere accolto insieme ai suoi compagni di scuola e di catechismo.

Le chiese cristiane, ieri, nella domenica che precede l’avvento, hanno riflettuto su Cristo Re, sull’eternità, su quel Regno in cui ci sarà la vera pace, la vera giustizia, in cui non si potrà più dire che le colpe dei padri ricadono sui figli. A questo guarda il cristianesimo.

Ascoltando il brusio, girando su Facebook, troviamo invece molti che plaudono alla scelta del vescovo. «Era ora», «Finalmente», «Pensa come si sentono i figli delle vittime». Questo atteggiamento mi ha ricordato Oscar Wilde e la sua descrizione del sentimento umano di vendetta sociale, quando descrive la sepoltura di un condannato a morte nel carcere di Reading e indugia sulla calce che brucerà le ossa e la carne del cadavere. La calce renderà quella terra sterile perché gli uomini «credono che il cuore di un assassino sporcherebbe ogni seme. Non è vero! La terra buona di Dio è più buona di quanto gli uomini sappiano. La rosa rossa spunterebbe più rossa e la rosa bianca più bianca… Ma nessuna rosa bianca né rossa sboccerà nella prigione… su quella striscia di fango e sabbia presso le orride mura della prigione, per annunciare agli uomini che si aggirano per il cortile che il Figlio di Dio è morto per tutti».

Da un assassino nessun fiore potrà né dovrà sbocciare. Ma non è per questo che Gesù è morto sulla Croce. Non è questo il Regno cui ci chiama a guardare.

Foto: "Panoramica Cattedrale di Palermo" di Kiban - Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.