Misericordia e non sacrificio
06 novembre 2014
La vicenda umana di Brittany Maynard non deve essere strumentalizzata: alcune riflessioni sul fine vita
E’ morta a 29 anni, sabato 1 novembre, decidendo lei quando interrompere la propria esistenza, anziché lasciare al glioblastoma multiforme di quarto grado (forse il più terribile tra i tumori del cervello) dal quale era affetta, di determinare il giorno e l’ora del suo decesso. Si era recata per questo in Oregon, Stato nel quale, grazie al Death with Dignity Act, il suicidio assistito è legale dal 1997. Quali che siano le nostre opinioni in materia di suicidio assistito e di eutanasia, Brittany Maynard merita innanzitutto il nostro rispetto.
Ho guardato i video da lei diffusi su internet, nei quali raccontava la sua storia e la sua decisione, ho visto il suo volto bellissimo reso quasi irriconoscibile dal cancro e dai farmaci, ho ascoltato le sue parole, sono stato toccato dalle sue emozioni. Mi hanno commosso sia la sua preoccupazione per sua madre, rispetto alla quale si chiedeva se sarebbe riuscita a superare il dolore di sopravviverle, essendo lei la sua unica figlia, sia la sollecitudine verso il proprio marito, al quale augurava, non senza un nodo in gola, di potersi rifare una vita e diventare finalmente padre, cosa resa impossibile dalla malattia che l’aveva colpita. Ora che è morta eccoci di fronte a un’opinione pubblica divisa in quelli che usano la sua storia per fare la loro battaglia in favore dell’eutanasia e del suicidio assistito e quelli che, con fervore uguale e contrario, la utilizzano per ribadire la sacralità della vita, la sua indisponibilità e la non liceità di una scelta come quella fatta da Brittany. Sarò una voce fuori dal coro, ma in questo caso, così come in altri, a me non piace che si faccia un uso strumentale delle tragedie che colpiscono le persone. Credo che sulle questioni relative al fine vita si debba riflettere a fondo, pacatamente, senza farsi trasportare dall’onda emotiva suscitata dal caso del momento, senza usare le vite e le tragedie degli altri, perché questo uso si trasforma troppo facilmente in abuso, in una mancanza di rispetto per la persona specifica, da una parte ridotta a bandiera di una causa, dall’altra additata come colei che ha fatto la scelta sbagliata. Da pastore non posso comunque nascondere un certo fastidio di fronte alle dichiarazioni di autorevoli ecclesiastici che sottolineano (con la pretesa che il loro non sia un giudizio sulla persona) che Brittany ha, comunque, sbagliato. Di fronte alle loro parole e agli esempi addotti di persone che, in situazioni forse paragonabili a quella di Brittany, hanno rifiutato di compiere la sua scelta, affrontando in maniera esemplare la sofferenza fino all’ultimo giorno della loro vita, mi sono ritornate in mente le parole del profeta Osea che Gesù ripete spesso nel Vangelo di Matteo: “Voglio misericordia e non sacrificio”. Ecco, questa misericordia mi è mancata e mi domando come si possa essere così spietati in nome di Dio e come possano uomini di chiesa continuare a propagandare una visione sacrificale della vita e della fede quando colui che ha compiuto l’unico sacrificio veramente salvifico ci invita, invece, a esercitare la misericordia.