Il mutato rapporto tra donne e uomini
03 novembre 2014
Intervista a Stefano Ciccone, dell’associazione Maschile Plurale
Nel corso della 43° assemblea generale dell’Ucebi, la sera di venerdì 31 ottobre si è svolto il convegno, a cui hanno partecipato i soli uomini presenti, dal titolo «Una questione da uomini: la violenza maschile contro le donne». Relatore è stato Stefano Ciccone di Maschile Plurale, associazione che si occupa di temi relativi
all’identità maschile dei nostri tempi, comprese le dinamiche violente. A lui abbiamo rivolto alcune domande.
Dinanzi alla trasformazione del ruolo femminile, compiutosi nel corso degli ultimi trent’anni, gli uomini si sono trovati impreparati. Come è cambiato il rapporto tra uomini e donne?
«Si parla spesso di uomini intimoriti dal cambiamento, minacciati dalla libertà e intraprendenza femminile, io invece credo che dovremmo provare a costruire una diversa narrazione del cambiamento dei rapporti tra donne e uomini: esso non è una minaccia ma piuttosto è un’opportunità che apre agli uomini degli spazi di ricchezza e libertà nella loro socialità e sessualità. Ovviamente, per noi uomini è un percorso molto più difficile, perché ci viene chiesto di rinunciare a un potere, ad una autorevolezza, una centralità, che ci è costato molto nei termini della nostra libertà, e che ha segnato una miseria nella vita degli uomini. Si pensi al rapporto gerarchico tra uomo e donna nella sessualità e a quanto questo abbia schiacciato la sessualità maschile sul piano della prestazione, del dominio, anziché costruirla sul piano della reciprocità. Si pensi a quanto nella società nel lavoro il nesso inscindibile tra ruolo maschile e potere abbia schiacciato le nostre vite in una dinamica competitiva tutta legata alla prestazione. Occorre riconoscere che c’è una disparità di potere tra donne e uomini, che essa esiste ancora oggi, e che produce una miseria negli uomini. Agli uomini si chiede di riconoscere che incontrare una donna con una sua autorevolezza, con la sua libertà, e dei suoi desideri, non toglie delle cose ma arricchisce la propria sessualità, la propria relazione».
Il protagonismo delle donne, dunque, va letto come un’occasione per gli uomini. Può fare qualche esempio?
«Pensiamo a quanto il tema della genitorialità o dell’affidamento dei figli dopo le separazioni siano un terreno di conflitto tra donne e uomini. Ciò che porta un tribunale ad affidare i figli ad una madre, anziché ad un padre, è lo stereotipo secondo il quale le donne sanno prendersi cura dei figli e gli uomini sono quelli che si occupano della famiglia, portando i soldi a casa. Ma, in un tempo in cui la famiglia tradizionale non è più inamovibile e c’è il divorzio, quello stesso stereotipo si rivolge contro l’uomo e il giudice dirà che è bene che i figli stiano con la madre mentre l’uomo dovrà garantire l’assegno mensile. Altro esempio è quello della sessualità che l’uomo vive in maniera scissa: da un lato una sessualità nobilitata dal fine procreativo con la moglie, e dall’altro una sessualità un po’ sporca, volgare, violatoria con la prostituta. Quella scissione, non solo separa le donne in distinte categorie, ma opera una rottura nella vita dell’uomo, Io, invece, vorrei ricongiungere la mia vita, la mia sessualità non perché sono buono e perché voglio rispettare o riconoscere i diritti delle donne, ma perché quella ricomposizione ha a che fare con la qualità della mia umanità in quanto uomo».
Che ricadute ha questo genere di riflessioni sul tema della violenza sulle donne?
«Oggi c’è un allarme sociale sulla violenza che però marginalizza la violenza. Parliamo della violenza, infatti, come questione di ordine pubblico, criminale, che attribuiamo agli altri, agli stranieri. Ma compiendo quest’operazione, non solo creiamo allarme sociale, e quindi giustifichiamo risposte repressive, xenofobe, militarizzate, ma marginalizziamo il tema, affermando che essa non ci riguarda – in quanto la violenza la fanno i maniaci, gli immigrati – e non mettendomi in discussione. Invece, dinanzi al tema della violenza degli uomini sulle donne, dobbiamo chiederci: cosa ci dice questa violenza? Ci parla di un immaginario in cui la sessualità maschile è qualcosa da imporre, che rimuove il desiderio femminile; ci parla di un rapporto gerarchico tra donne e uomini nella famiglia, nella quale la donna è debole e deve essere protetta e controllata dall’uomo.
Oggi passa la lettura pericolosa secondo la quale la violenza maschile è frutto di un disordine della società che ha perso i suoi valori tradizionali, tra i quali la legge paterna che regolava i comportamenti maschili, di potere. Il problema è proprio il contrario: la violenza nasce da una cultura profonda e consolidata che ha generato una gerarchia tra gli uomini e le donne, e ha giustificato una relazione nella sessualità e nella coppia, non basata sulla parità e reciprocità, che è alla base dei comportamenti violenti. Occorre lavorare per trasformare questa cultura già oggi, non domani».
Quale può essere il contributo delle chiese cristiane sulla ridefinizione dei ruoli di genere?
«Penso che le comunità cristiane possano avere un ruolo importantissimo perché sono luoghi in cui le persone si interrogano sul senso della propria vita. Ora se quell’interrogazione profonda mette continuamente in discussione il proprio modo di stare nel mondo, i modelli tradizionali di potere, di gerarchia, allora nasce per gli uomini una domanda di libertà, che è poi ciò che anima anche l’esperienza religiosa».
Foto Pietro Romeo