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Fratelli e sorelle di Jerry Masslo, un equilibrio precario ma creativo

L’integrazione degli immigrati evangelici nelle chiese italiane

Jerry Masslo era un profugo politico sudafricano e un predicatore battista ucciso a Villa Literno il 24 agosto 1989, «nel corso di una rapina ai danni degli immigrati impegnati nella raccolta del pomodoro». A lui è dedicato il volume Fratelli e sorelle di Jerry Masslo – L’immigrazione evangelica in Italia, a cura di Paolo Naso, Alessia Passarelli e Tamara Pispisa (Claudiana, pp. 220, € 14.90). Le pagine del testo, dense di dati e di osservazioni, offrono motivi di riflessione e di approfondimento sia a coloro che più direttamente si sentono legati al protestantesimo, sia a quanti prestano attenzione ai fenomeni del nostro tempo.

Gli immigrati evangelici da noi sono circa 250mila: in Italia un evangelico su tre è immigrato. E l’Unione europea «attribuisce alla comunità di fede un ruolo importante nella definizione e nell’attuazione di percorsi di integrazione». Essa, infatti, è vista come un ponte fra individui e gruppi.

Si tratta di una presenza quanto mai variegata e plurale, e «da diverse ricerche emerge il fenomeno dello ‘slittamento denominazionale’: evangelici (…) che nei loro paesi aderivano alla chiesa metodista o a quelle riformate, per esempio, giunti in Italia hanno finito per avvicinarsi alla comunità loro più prossima per lingua, tradizioni e modalità di svolgimento del culto».

Il libro, poi, analizza la situazione delle chiese battiste, metodiste e valdesi (illustrando fra l’altro l’«esperienza pionieristica di Palermo-Noce» e quella di Mezzano e Parma), delle chiese avventiste e, limitatamente al territorio del Comune di Roma, delle comunità pentecostali. Riguardo a queste ultime, ci troviamo al cospetto di un vero e proprio arcipelago, caratterizzato dalla «convivenza, talvolta stridente, talvolta di proficua reciproca influenza, tra un consolidato pentecostalismo autoctono, romano – presente già dai primi decenni del XX secolo – e quello immigrato, spesso sincretico ed etnico, carico di valenze identitarie e socioculturali».

Ma come, in concreto, Essere chiesa insieme? Ecco cosa dice, nel corso di un focus group, Teresa, di Bologna: «Siamo in un momento di equilibrio precario in cui ognuno ha i suoi spazi. Io l’integrazione non la vedo proprio, o meglio la vedo molto lontana. Durante il culto (…) gli stranieri sono relegati al coro internazionale. Tutti sanno che quello è il loro momento, basta che poi stiano tranquilli. Si porta pazienza con le letture in inglese e poi è tutto degli italiani. Adesso anche gli studi biblici sono divisi, neanche più in inglese ma direttamente in twi». Insomma: le difficoltà non mancano. Annamaria aggiunge: «Il cambiamento è soggettivo, dipende dalla sensibilità individuale. Io so di alcune persone che hanno fatto una gran fatica. Per quanto mi riguarda c’è stato un momento di sconvolgimento iniziale ma poi è stato molto positivo».

E «dal punto di vista quantitativo (…) il modello prevalente di organizzazione ecclesiastica è quello delle chiese ‘etniche’, ovvero di comunità di fedeli che si autoselezionano sulla base della provenienza geografica, della lingua, della riproposizione di forme di organizzazione tipiche della chiesa d’origine». Esse, però, se talora sono indipendenti, altre volte sono federate a network nazionali comprendenti anche chiese italiane, oppure aderiscono a queste ultime.

In definitiva, il volume ci consente un viaggio originale nell’Italia e nel mondo di oggi, accanto, per esempio, a Richard, che dice: «Sono arrivato in Italia, a Palermo, 24 anni fa e ho visto una chiesa diversa da quella del Ghana, dove si parla twi. A Palermo c’era già un tentativo di integrazione perché il culto si svolgeva in italiano e in inglese ma a me sembrava di entrare in un altro mondo. Venivo da una chiesa che era chiusa nel suo mondo, solo twi, e a Palermo vedevo ivoriani, italiani, ghanesi, nigeriani, inglesi, tedeschi (...) Non ho fatto fatica, ero anche ragazzino, avevo 18-20 anni… era un mondo nuovo ma bello».