Fede in Dio e nella giustizia
15 settembre 2014
Pubblicato su Riforma settimanale n. 35/2014
A fine agosto sono state rese pubbliche sui media nazionali le minacce pronunciate il 14 settembre del 2013 dal boss mafioso Salvatore Riina contro don Luigi Ciotti, fondatore di «Libera. Associazione, nomi e numeri contro le mafie». Riforma lo ha intervistato.
Dopo le minacce di Riina, ha ribadito la forza del «noi», del lottare insieme. Tale convinzione ha radici nella sua esperienza di credente?
«Sì, perché la mia fede non è confinata in una dimensione intimistica. È ascolto, preghiera, riflessione, silenzio; ma è anche tensione verso il mondo e le persone. È una fede in Dio che implica la fede in una giustizia di questo mondo e l’impegno comune per realizzarla. È da qui che deriva l’importanza che assegno al «noi», che vuol dire corresponsabilità, condivisione e anche continuità, perché solo l’impegno quotidiano può cambiare le cose».
La sfida contro le mafie è anche culturale. Qual è il ruolo dei credenti nella testimonianza dell’Evangelo in questo scenario?
«È un ruolo di grande importanza e responsabilità. Riconoscersi nel Vangelo comporta riconoscere la sua incompatibilità non solo con le mafie, ma con tutte le forme di indifferenza, di noncuranza, di tiepidezza morale e spirituale che delle mafie sono l’avamposto. Il male non è solo di chi lo commette, ma anche di chi guarda e lascia fare. Alla base di tante violenze e ingiustizie c’è l’omissione, ci sono coscienze anestetizzate o addomesticate. Il credente, in tal senso, può dare un grande contributo, dimostrando nei fatti che tra dimensione spirituale e impegno sociale c’è la stessa relazione che salda il Cielo e la Terra, e che la fede non può diventare mai un salvacondotto alla responsabilità. Come sacerdote non posso allora che riconoscermi e gioire delle parole di papa Francesco quando afferma: «Una fede autentica implica il sincero desiderio di trasformare il mondo». Ma la fedeltà al Vangelo, alla sua intransigenza etica e spirituale, non è certo prerogativa della chiesa cattolica. E tra i molti esempi penso proprio alla coraggiosa presa di posizione della Chiesa valdese dopo la strage di mafia di Ciaculli, un sobborgo di Palermo, nel lontano 1963. Epoca in cui la realtà della mafia – in certi ambiti politici e anche di chiesa – veniva negata o al massimo ridimensionata a fatto di ordinaria criminalità».
Cosa temono le mafie?
«Le inchieste, gli arresti e soprattutto che gli vengano sottratti i beni, i patrimoni. Ma altrettanto temono il risveglio delle coscienze, l’impegno educativo e culturale, le realtà che danno lavoro e dignità alle persone. Temono tutto ciò che produce giustizia sociale e prosciuga il consenso passivo che sta alla base del loro potere. La sintesi più graffiante, a riguardo, l’ha fatta un magistrato, uomo di ampie vedute e di profonda umanità: Antonino Caponnetto, coordinatore negli anni Ottanta del «pool antimafia» di Palermo e «padre» professionale di Falcone e Borsellino. «La mafia teme la scuola più della giustizia – ha detto – la scuola taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa»».
La corruzione è un volto della mafia?
«È un volto della mafiosità, anzi ne è l’espressione più diffusa. Ed è il più grave problema del nostro Paese. Per contrastarlo occorre agire su due livelli. Il primo è naturalmente legislativo: dobbiamo arrivare quanto prima a una legge organica e incisiva. La riforma dell’art. 416ter sul voto di scambio politico-mafioso è un primo passo: l’allargamento del reato a «altre utilità» permette di sanzionare come corruzione non solo gli scambi in denaro. Bisogna proseguire determinati, colpendo con severità i cosiddetti «reati civetta», spie di attività corruttive. Penso ad esempio al falso in bilancio, ridotto da precedenti legislature a semplice bagattella, quando invece permette di accantonare i fondi neri utilizzati a fini di corruzione.
L’altro piano è quello culturale e educativo. Occorre colmare il grave deficit di responsabilità, di senso civico, di coscienza del bene comune. Se non c’è investimento in questo piano, una legge, per quanto buona, non cambierà le cose. La corruzione è così diffusa perché è un reato fondato sull’intesa - fra corruttore e corrotto - a minimizzarlo o perfino non considerarlo tale. Ai loro occhi è un’azione senza colpevoli e dunque senza vittime, mentre la vittima c’è, eccome: è la società intera, siamo tutti noi. Solo lavorando sulla coscienza del bene comune, e sull’impegno a costruirlo, toglieremo spazio alla corruzione e alle mafie, parassiti del bene comune».
Perché c’è ancora un vuoto della politica nel contrasto alle mafie e alla corruzione?
«Perché manca il coraggio e la consapevolezza, e perché purtroppo emergono a volte forme più o meno dirette di complicità. Con questo non voglio generalizzare: conosco tante persone serie e oneste in politica. Certo c’è stata, e continua esserci, una sproporzione tra le parole e i fatti. Molte promesse, molte dichiarazioni, molta retorica, e una tendenza – non solo sulle mafie – a inseguire l’emergenza, senza andare alla radice dei problemi. C’è poi un limite culturale, quello di considerare la mafia come un fatto esclusivamente criminale, che basta reprimere. Ci vogliono invece politiche sociali, ci vuole lavoro, scuola, dignità delle persone cioè consapevolezza dei loro diritti e doveri. La mafia affonda le sue radici nei vuoti di diritti e democrazia. Occorre dunque una politica – e una società intera – all’altezza dell’impegno che ci assegna la Costituzione, dove la parola mafia non viene pronunciata, ma dove ci sono tutte le indicazioni per costruire una società libera dalle mafie».
Riina e altri esponenti delle mafie non cessano di ribadire quanto siano devastanti per loro il sequestro e la confisca dei beni. Come si integra l’impegno di «Libera» con il lavoro perseguito dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata?
«La realizzazione dell’Agenzia, che abbiamo a lungo richiesto, è stato un passo importante, ma ci sono molti aspetti da migliorare, soprattutto dal punto di vista delle risorse assegnate e quindi dell’operatività. Poi ci sono passaggi della legge che vanno rivisti, deburocratizzati e resi più incisivi, come è necessario studiare dei meccanismi per accompagnare la crescita delle realtà e impedire che alcune – penso soprattutto alle aziende confiscate – non trovino i mezzi per ripartire. La legge sull’uso sociale dei beni confiscati è stata una svolta nella lotta alla mafia perché ha unito l’aspetto repressivo con l’impegno sociale. Per questo va sostenuta, migliorata, applicata con efficacia. Quella dei beni confiscati è una partita che non possiamo permetterci di perdere».
Il settimanale «Riforma» entra nelle carceri ed è letto anche da persone detenute per reati di mafia. Le chiediamo un messaggio per loro.
«Il messaggio, e l’augurio, è che trovino il coraggio di andare a fondo di se stessi, di ripensare alla propria vita, e di chiedersi davvero se quello che hanno fatto e vissuto è stato quello che desideravano per se stessi e per i loro cari. Lo faccio con molta umiltà, senza voler insegnare nulla, ma nella convinzione – maturata in cinquant’anni d’impegno nella strada – che non c’è reato o anche crimine grave che impedisca un percorso di trasformazione e di miglioramento. Quando il male diventa coscienza del male, si è già aperta una strada al bene, alla dignità e alla libertà della persona».