Intervista a Mansueto Bianchi
26 agosto 2014
Il pastore Pawel Gajewski intervista mons. Mansueto Bianchi, presidente della Commissione CEI per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso e ospite del Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste. Fonte: chiesavaldese.org
Nel corso dell'intervista, il prelato ha parlato del pontificato di papa Francesco, dei temi dell'integrazione e dell'immigrazione oltre che dei possibili progetti comuni in vista dell'anniversario della Riforma protestante nel 2017.
Vorrei cominciare questa intervista partendo da papa Francesco, perché in questi quasi diciotto mesi di pontificato ci sono stati alcuni pronunciamenti, alcuni gesti che, almeno da una parte del mondo protestante, sono stati recepiti come "captatio benevolentiae". Anche tra i nostri membri di chiesa, c'è chi ritiene che la predicazione di Francesco sia molto evangelica. Alla luce di tutto questo Lei come valuta il clima ecumenico in Italia?
Per quanto riguarda la figura di papa Francesco credo che sia una figura che in un certo senso ha sorpreso la stessa Chiesa cattolica e in qualche modo, ancor più intensamente, forse per i particolari legami che storicamente esistono, la Chiesa italiana. Quindi c'è stato in senso positivo un trasalimento che ha toccato le più diverse sfere, i più diversi ambiti di vita ecclesiale, sia gli ambiti istituzionali sia l'ambito più propriamente, più significativamente popolare, sia anche le diverse persone con i ruoli o i servizi che esprimono all'interno dell'organismo ecclesiale. E' una vicenda che mi pare, sotto il profilo personale, per quanto riguarda la figura di papa Francesco, non sia un comportamento, per così dire, tattico perché, chi lo ha conosciuto da sempre, testimonia con molta convinzione, con molta chiarezza che questo è da sempre Bergoglio. Sorprende forse noi occidentali, anche noi italiani, sorprende certamente meno le chiese, la popolazione dell'America latina, perché lo stile, quello più popolare, quello più sciolto è quello del buon parroco che è un buon pastore nel senso che è una buona guida e anche un buon maestro nel cammino del popolo di Dio, però la forma dell'approccio e del proporsi è una forma marcatamente popolare, cosa a cui forse noi non eravamo abituati. Leggerei quindi il comportamento del papa sotto il segno della lealtà, della genuinità, dell'affidabilità.
Il pontificato di Bergoglio sta tirando fuori il dialogo ecumenico da una predominante preoccupazione teologica che forse negli ultimi anni aveva portato a delle difficoltà di cammino, rilanciando, riproponendo un ecumenismo “spirituale”, nel senso più nobile della parola, nel cui alveo si deve porre lo stesso dialogo teologico, perché la vicenda ecumenica ha prima di tutto un'anima e l'anima è quella dello Spirito Santo, è l'afflato dello Spirito sul cuore delle Chiese che chiama, dirige, convoca all'unità.
Il dialogo ecumenico, sotto l'aspetto teologico, deve farsi discepolo di questo afflato dello Spirito, deve accoglierlo, deve interpretarlo. Certamente ha i suoi momenti specifici, avrà anche le sue difficoltà, le sue pesantezze o fatiche specifiche nel campo strettamente teologico, ma il dialogo non è l'auriga del cocchio, non è il cocchiere. Nella vicenda ecumenica, il cocchiere è veramente la passione spirituale, cioè quella dimensione che è accesa dallo Spirito nel cuore delle persone, nel cuore delle Chiese. E' a partire da questo che credo sia anche sgretolabile quella specie di crosta di ghiaccio che si è creata da questa momentanea prevalenza delle ragioni teologiche sull'impulso dell'istanza dello Spirito nei confronti del cuore delle Chiese.
Parlando dello Spirito Santo, la recente visita privata di papa Francesco alla Chiesa della Riconciliazione guidata dal pastore pentecostale Giovanni Traettino è un evento senza precedenti. Secondo Lei possiamo interpretare questo gesto come un invito all'apertura del dialogo tra la Chiesa cattolica romana e le Chiese pentecostali che non solo in America Latina ma anche qui in Italia sono una realtà numericamente molto forte?
Sono d'accordo con l'interpretazione che lei suggerisce perché la visita personale non è stata una visita privata, non si sono trovati a prendere un caffè in un'abitazione privata; si sono incontrati in uno spazio pubblico che è lo spazio del culto, lo spazio della celebrazione per la chiesa e si sono parlati di fronte ad una comunità che ascoltava e interagiva. Allora evidentemente questo incontro, pur avendo una dimensione, una componente nell'amicizia personale, diventa un segnale lanciato alle chiese, diventa un'attenzione rivolta verso questa dimensione e componente pentecostale che in un certo senso sta attraversando tutte le chiese, perché non è una geometria, una geografia che si compone con altre, ma è trasversale. E quindi è un fenomeno che merita, a mio avviso, un'accurata analisi e un'attenzione profonda, perché a volte ci sono dei segni di Dio nei confronti dei quali noi ci distraiamo un momento.
Torniamo a noi protestanti storici. Si avvicina l'anno 2017. Non vorrei chiamarlo giubileo ma semplicemente anniversario. Questo anniversario sarà sicuramente un momento di riflessione, un momento di bilancio. Lei, come responsabile dell'ecumenismo della Conferenza episcopale italiana, come valuta la possibilità di avere qui in Italia un dialogo teologico sul tema centrale della Riforma cioè sulla giustificazione per sola fede ed eventualmente come vede la possibilità di avere anche un incontro di tipo liturgico in occasione di questo anniversario importante per tutte le chiese cristiane?
Anzitutto parto sottolineando la conclusione della sua domanda, dicendo che è un anniversario importante per tutte le chiese cristiane. Effettivamente è questo. Abbiamo sempre guardato a quella data, il 1517, come a un'occasione di lotta o di dialettica. In realtà invece bisogna guardare all'anniversario come si guarda ad un'occasione, ad una risorsa per diventare quelli che ancora non siamo e non siamo storicamente riusciti ad essere, cioè guardare come ad una vicenda attraverso la quale il Signore ci ripropone il dramma e il peccato delle nostre divisioni. Mi pare interessante che, forse per la prima volta, in mezzo millennio di storia, questo anniversario venga guardato positivamente da tutte le chiese, almeno dalla Chiesa cattolica e certamente dalle Chiesa evangeliche. Il che vuol dire riconosciamo in questo gesto e nella figura di Martin Lutero un segnale, un appello che Dio rivolge oggi alle nostre chiese, che è memoria del nostro peccato e dei doni di Dio che abbiamo ignorato o che abbiamo sciupato. Allora questo, io lo ritengo tale, è una novità storica a mio avviso fondamentale; forse noi che siamo immediatamente coinvolti nelle cose, può darsi che ci sfugga la loro dimensione simbolica, che non vuol dire semplicemente astratta ma vuol dire che è una porta aperta sul futuro, un progetto lanciato verso il futuro.
Questo anniversario è certamente una profezia. Ho letto con molta attenzione e molta speranza il documento congiunto dei teologi della Riforma e dei teologi cattolici sul tema della giustificazione; mi pare che abbia una solida base, un solido piedistallo di condivisione, di consenso che intravede, pone alcuni punti di dialogo ancora aperto, di confronti ancora da realizzare. Però a me sembra un buon punto e anche affidabile per il percorso futuro. Vorrei dire due cose: su un documento di quel genere, di quella importanza è prevedibile e necessario che le chiese, con la loro “corposità”, la loro istituzionalità, con il loro bagaglio di storia, di tradizione in senso positivo che portano, pongano ed esplicitino le loro difficoltà. Perché un documento, per essere ecclesiale, ha bisogno di raccogliere il consenso delle chiese di convinzione non di convenienza altrimenti si sfalsa il documento. Che il documento ponga e faccia evidenziare le difficoltà presenti nel cuore delle chiese così come oggi esse si percepiscono e come percepiscono l'altra chiesa con la quale sono in dialogo, mi sembra uno degli obiettivi positivi del documento stesso, perché il documento possa avere un futuro e una dimensione ecclesiale.
La seconda annotazione che vorrei fare è questa: credo che tutti, anche i teologi non professionisti come me, per esempio, rimaniamo sorpresi di quanto ci troviamo vicini, prossimi quando riprendiamo certi termini e li rituffiamo nell'atto generativo che è la rivelazione di Dio, che è la Parola di Dio, cioè quando, pur con tutto il nostro bagaglio anche positivo, perché non siamo angelici, positivo di traversata della storia, con tutto il nostro bagaglio culturale noi prendiamo gli snodi terminologici, perché un po' spesso i problemi si coagulano attorno a delle parole, attorno a sintesi di un pensiero, di un percorso del pensiero, quando noi riprendiamo questi termini e li riconsegniamo, li immergiamo nella sorgente della rivelazione, credo che ci sia un trasalimento nelle persone perché ci si accorge, quando ci riconsegniamo alla Parola di Dio, ci si accorge di una possibile vicinanza che, partendo e guardano alle nostre posizioni semplicemente storiche, attuali, non sospettavamo. Quindi è una nota di metodologia che trovo adempiuta in quel documento ma che deve diventare una prassi ecclesiale e non semplicemente una vicenda di un gruppo di teologi.