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La pandemia non è finita

Sebbene la guardia sia ormai molto bassa, i numeri dei contagi ci spingono a prestare ancora attenzione al Covid 19

È da tempo ormai che capita di riferirsi alla pandemia da Covid 19 al passato, come un evento superato o quantomeno in esaurimento, nonostante le ondate siano state numerose e frequenti. Senz’altro gioca un ruolo pesante la stanchezza di questi anni di diffusione del virus, tanto da spingerci alla convinzione che si tratti di un problema ormai alle spalle.

I dati delle ultime settimane però smentiscono questa posizione. Forse per rendersene conto non serve nemmeno osservare i numeri, ma semplicemente notare il numero di positività nel proprio giro di conoscenze, tornate a crescere di recente. Le cifre confermano comunque questa impressione, anche se in Italia la nuova curva in salita sembra già essere in via di rallentamento.

I contagi non sono però in crescita soltanto in Italia. L’OMS ha lanciato un avvertimento all’Europa, per la quale si prevede un’ondata autunnale.  «È chiaro che la pandemia di COVID-19 non è ancora finita» hanno commentato il direttore dell'Oms per l'Europa, Hans Kluge, e il direttore dell'ECDC, Andrea Ammon. In Inghilterra e Galles nei primi giorni di ottobre si segnalavano morti legate al Covid 19 in crescita del 40% rispetto alla settimana precedente. Anche negli Stati Uniti sta salendo la preoccupazione rispetto ad una nuova fase critica che potrebbe raggiungere il Paese.

In queste aree del mondo (ma soprattutto in Europa) si fanno sentire allo stesso tempo gli effetti dei vaccini, che, sebbene non abbiano interrotto la trasmissione della malattia, garantiscono senz’altro una diffusa protezione rispetto alle infezioni gravi e alla mortalità riconducibile direttamente al Covid. Forse è anche il successo dei vaccini stessi ad alimentare l’allentamento del timore nei confronti del virus.

Lo stesso non si può dire per quei paesi dove invece la vaccinazione continua ad arrancare. L’iniziativa Covax, programma internazionale con lo scopo di distribuire dosi nelle nazioni in via di sviluppo, non ha mai preso piede e ha finora mancato tutti gli obiettivi che erano stati prefissati. Già quest’estate il fallimento dell’operazione era stato ammesso anche dagli enti promotori del programma, che stavano lavorando ad una riorganizzazione drastica. Al momento non sembra però essere cambiato molto: continuano a fare notizia, ad esempio, gli smaltimenti di dosi scadute e non utilizzate in paesi con un alto tasso di vaccinazione, laddove in molte aree del pianeta manca ancora il primo ciclo di iniezioni. D’altro canto però i lavori non sono del tutto bloccati, come conferma la firma di un accordo tra Covax e Moderna per la fornitura di vaccini adattati ai paesi a basso reddito. L'entusiasmo si ferma comunque dopo qualche riga: si parla di 100 milioni di dosi, una cifra senz’altro insufficiente rispetto al numero di persone da vaccinare.

Tutto questo non deve comunque farci pensare che la campagna vaccinale nei paesi ad alto reddito, come l’Italia, sia al contrario conclusa. Sebbene nel nostro paese si cominci a ragionare di una quinta dose per le categorie più fragili, i numeri odierni non mostrano uno scenario incoraggiante. Se il ciclo vaccinale primario copre circa il 90% della popolazione over 12, solo il 29% della platea prevista ha ricevuto la seconda dose booster e solo il 44% dei bambini tra 5 e 11 anni ha completato il ciclo vaccinale previsto. Anche in questo caso, sulla poca voglia a vaccinarsi sta probabilmente incidendo la tranquillità diffusa rispetto alla diffusione del virus, per la quale forse occorrerebbe una comunicazione più incisiva da parte delle autorità.

Si può infine allargare nuovamente lo sguardo alla situazione globale e porci qualche domanda sulla risposta del mondo nei confronti della pandemia. Se lo chiede Politico in un pezzo di opinione: siamo pronti ad affrontare la prossima malattia infettiva? Ci faremo cogliere di nuovo impreparati? Secondo l’autore dell’articolo, ovvero Seth Berkley, il CEO di Gavi (uno degli enti al centro dell’iniziativa COVAX) la risposta è molto semplice: no, non siamo affatto pronti. Del resto, non siamo ancora riusciti ad organizzarci globalmente per arginare un virus emerso ormai quasi tre anni fa.

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