Le luci effimere di Betlemme
21 dicembre 2021
Continuano a restare irrisolti i problemi che attanagliano le diverse comunità mediorientali: intanto la componente cristiana si fa sempre più esigua
La grotta, gli angeli, i pastori, i canti. Ma la consueta iconografia natalizia non cancella la sofferenza che anche in questi giorni si vive a Betlemme, nei territori palestinesi e in Israele. Le città palestinesi sono sempre più “strette” all’interno di aree ritagliate a macchia di leopardo e divise dal “muro” che filtra i flussi dei pochi lavoratori che lavorano in Israele. Difficile muoversi, difficile commerciare, impossibile espatriare.
Ormai inattuale ogni accordo di pace strategico, anche nei Territori della Cisgiordania si levano critiche severe alla dirigenza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e aumentano le simpatie per Hamas. Nei giorni scorsi, l’arresto da parte della polizia palestinese di alcuni esponenti islamisti ha suscitato violente reazioni nei campi profughi di Dheisheh, Aida e Beit Jibrin. Le tensioni esterne si sommano a quelle interne alla società palestinese, nel quadro di un processo politico sostanzialmente bloccato. Tensioni anche all’interno della storica università palestinese di Bir Zeit, dove si confrontano studenti di opposte fazioni politiche. I numerosi negozianti di Betlemme guardano costernati a questi scontri che rischiano di allontanare di nuovo i pellegrini e quindi di ridurre drasticamente le entrate di un intero anno di lavoro.
Passato il confine, la situazione politica non è più stabile: il governo Lapid-Bennett, quello che dopo anni è riuscito a mettere all’opposizione Benjamin Netanyahu, poggia su una risicata maggioranza ed è composto da ben otto partiti che vanno dalla destra nazionalista all’estrema sinistra e, per la prima volta, comprendono un partito arabo-israeliano. Più che di soluzione del conflitto, negli ambienti governativi israeliani si parla di “gestione” della crisi, riconoscendo implicitamente che non è questo il momento dei passi coraggiosi o impegnativi. Gli attentati sono nettamente diminuiti ma il terrorismo è ancora in campo. L’ultima volta, il 21 novembre, ha colpito a Gerusalemme, nella zona blindatissima prossima al Muro del pianto, provocando un morto e tre feriti. A settembre c’era stato un timido tentativo di dialogo tra il presidente dell’Anp Abu Mazen e il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz. Niente più che un contatto formale, ma sufficiente a scatenare la reazione della Destra del Governo che, per bocca del portavoce del premier Naftali Bennett, aveva immediatamente precisato che «non c’è un processo diplomatico con i palestinesi né ce ne sarà uno».
La pace può aspettare. È lo stesso principio guida dei “due popoli e due stati” – architrave degli accordi di Oslo del 1993 – che oggi viene messo in discussione, da una parte e dall’altra. È troppo per quegli israeliani che coltivano il sogno della “Grande Israele”, troppo poco per i palestinesi il cui territorio è irreversibilmente attraversato e frammentato da insediamenti che ne spezzano la continuità. Aumentano allora i fautori della formula “uno stato per due popoli”, progetto di uno stato binazionale, oggi irrealistico eppure plausibile: attualmente, del resto, il 20% della popolazione d’Israele è già composto da “arabi israeliani” e, sia tra i palestinesi sia tra gli israeliani, cresce il numero di coloro che hanno capito che il futuro degli uni è strettamente connesso a quello degli altri.
La comunità cristiana palestinese, intanto, si fa sempre più esigua. Il declino è particolarmente rilevante proprio nell’area di Betlemme: a Beit Jala, la maggioranza cristiana è scesa dal 99 al 61% dei residenti. A Beit Sahour – il campo dei pastori del racconto evangelico – dall’81 al 65%; se un decennio fa i cristiani di Betlemme ammontavano all’84% della popolazione, ora non superano il 22. Al momento del crollo dell’impero ottomano, i cristiani erano l’11% della popolazione della Palestina, circa 70.000 persone. Secondo l’ultimo censimento dell’Autorità Palestinese, ora sono 47.000, appena l’1%.
Lo scenario di una Terrasanta – termine certamente suggestivo ma fuorviante – senza i cristiani è sempre più realistico. Ma se la causa remota di questo esodo è negli effetti di un conflitto che dopo le speranze suscitate dall’accordo di pace firmato nel 1993 si è avvitato su sé stesso, è doveroso considerare anche altri fattori. Il primo è che i cristiani di Palestina, anche grazie alle scuole e ai collegi aperti dai missionari, hanno avuto un accesso facilitato ai gradi di istruzione più alti che ovviamente garantiscono migliori opportunità di lavoro all’estero. In secondo luogo, c’è il fattore trans-nazionale: le comunità cristiane, soprattutto cattolici e protestanti, hanno solidi legami con paesi esteri e, almeno in passato, riuscivano a facilitare dei progetti migratori mirati. Infine, c’è la spinta a scappare da un paese che, oltre che recintato dalle politiche israeliane, è sempre più corrotto. Un recente sondaggio a cura del Philos Project, attesta che l’82% dei cristiani palestinesi denuncia una corruzione endemica. Chi può scappa.
Per qualche giorno Betlemme e la Cisgiordania saranno illuminate dalle luci del Natale che poi si spegneranno. Eppure, sarebbe quello il momento di accendere i riflettori su una crisi dimenticata, sui diritti negati, sulle violenze di una terra che sta perdendo una comunità di credenti che, insieme ad altre, ha pieno titolo per identificarsi con essa.