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Il Sudan e l’accordo nel Paese senza pace

Il reportage della giornalista Antonella Napoli dopo 26 giorni di proteste brutali e repressioni: «c’è l’accordo in Sudan ma non la pace»

Dopo 26 giorni di proteste brutali e repressioni - con decine di morti e centinaia di arresti - c’è l’accordo in Sudan, ma non la pace. 

Il primo ministro sudanese Abdallah Hamdok (costretto alle dimissioni il 25 ottobre scorso con un golpe e sino a ieri agli arresti domiciliari) ha accettato l’accordo con le forze armate che lo avevano deposto per un suo ritorno alla guida del Governo. Intesa insoddisfacente per una consistente parte della società civile che non si fida più dei suoi generali né dei partiti della coalizione delle Forze della libertà e del cambiamento. Centinaia di persone sono scese in strada per protestare, mentre Hamdok confermava il nuovo esecutivo «per rimettere in moto la transizione e le riforme necessarie per risollevare il Sudan dalla crisi». I manifestanti hanno dunque intonato slogan contro i militari per dire il loro «no all’accordo del tradimento» e per chiedere a gran voce che «nessun militare facesse parte di organismi istituzionali del Paese». Le forze di sicurezza hanno ancora una volta utilizzato i lacrimogeni per disperdere la folla a Omdutman (città gemella della Capitale) e negli scontri sono morti – sono stati uccisi - due manifestanti. Un uomo di 26 anni Abdel Alnour e un ragazzo di 16 anni, Youssef Abdel Hamid, entrambi colpiti alla testa dalle Rapid support force, le milizie guidate dal colonnello Mohamed Dagalo, alias Hemeti, che continua ad avere un ruolo di primo piano nel Consiglio sovrano ripristinato dal generale Abdel Fattah al-Burhan.

Il «non-golpe», come ama definirlo il capo dei militari sudanesi, ha causato sinora oltre 50 vittime colpite per reprimere le manifestazioni. Per la Sudan professionals association e in generale per tutta la comunità internazionale, si è trattato chiaramente di un colpo di stato. 

Per il cartello di 17 sindacati che hanno animato le rivolte si è invece trattato di un tentativo per mantenere il potere, potere che avrebbero dovuto lasciare ai civili come previsto dall’intesa costituzionale che stabiliva 39 mesi di transizione a guida alterna. I primi 21 mesi erano stati «presieduti» dai generali, il cui mandato scadeva il 16 novembre. Venti giorni prima, il 25 ottobre, il golpe ha azzerato tutto. 

Ed è questo elemento che, più di ogni altro, pesa sulla decisione della Spa di non voler accettare alcun accordo.

«Non riconosceremo mai questo governo – rileva con fermezza Mohamed Naj al-Assam, uno dei leader – non ci fidiamo più neanche di Hamdok. E poi i militari hanno versato troppo sangue. Nella sola manifestazione di mercoledì scorso le milizie hanno ucciso 20 persone, tra i quali cinque erano appena ragazzini. Non faremo mai accordi con una giunta brutale e impiegheremo tutti i metodi pacifici e le nostre forze per abbatterla». 

Ad annunciare la svolta, che ha infiammato ulteriormente le proteste, Fadlallah Burma, il mediatore incaricato dall’Unione Africana di trovare una soluzione politica allo scontro in atto tra le due anime della transizione postBashir, il presidente dittatore esautorato dopo trent’anni di sanguinario regime con un colpo di stato l’11 aprile del 2019.

Al tavolo di mediazione hanno partecipato sia esponenti politici che militari e rappresentanze del mondo accademico e professionale sudanese, tra cui esponenti della stampa.

Il premier Hamdok è stato incaricato di formare un governo indipendente di tecnici che affiancherà il Consiglio Sovrano composto dai firmatari di un’intesa politica raggiunta tra partiti, gruppi di ex ribelli e militari. 

Il reintegro di Hamdok è stata accolto con entusiasmo dall’Egitto, tra gli attori principali coinvolti nella soluzione della crisi. Freddezza è stata invece manifestata, per ora, dal blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti che premeva per un accordo più inclusivo. 

Il primo ministro ha assicurato che favorirà una «celere ripresa del processo legale e politico di transizione», come aveva stabilito la Dichiarazione costituzionale firmata il 18 agosto del 2019 a Khartoum e confermato l’accordo di Juba dell’ottobre dello stesso anno sottoscritto anche dai gruppi ribelli del Darfur, regione occidentale del Sudan in conflitto con il governo centrale dal 2003.

Burhan ha sempre sostenuto che l’intervento militare si era reso necessario «per mantenere l’ordine pubblico messo a rischio dalla frattura nella coalizione di civili».

L’unico elemento certo è che il golpe ha posto fine all’alleanza scaturita dal rovesciamento dell’ex presidente Bashir. Spaccatura insanabile e che condizionerà il futuro del governo dopo i nuovi massacri di manifestanti pacifici. Morti che la polizia nega di aver causato. A confermare che le ferite dei dimostranti durante le proteste «erano state causate da armi da fuoco» è invece il Comitato dei medici sudanesi che parla di «colpi sparati per uccidere». 

Eppure, le forze di sicurezza hanno sempre sostenuto di aver seguito il principio della «forza minima» e di aver usato solo proiettili di gomma. Affermazioni smentite da testimonianze e video che hanno dimostrato tutta la brutalità delle repressioni.

Articolo pubblicato per gentile concessione dell’autrice e uscito sul sito www.articolo21.org

 

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