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Twin Towers 11/09/2001 – 11/09/2021

Vent’anni fa l’attacco alle Torri Gemelle. Oggi l’Afghanistan. Un viaggio tra le macerie di ieri e di oggi insieme allo storico Alessandro Portelli

L’11 settembre 2001 segnò una svolta nell’immaginario degli Usa e confermò la capacità di compattarsi intorno a un’idea comune di Nazione e di valori. Poco tempo dopo uscirono dei racconti firmati dai più grandi autori di allora e di oggi: Don DeLillo, Toni Morrison, Paul Auster, testi poetici di musiciste come Patti Smith e Laurie Anderson. Ma fu davvero così? Lo chiediamo a Alessandro Portelli, già professore di Letteratura angloamericana e critico musicale.

«Quella tragedia generò una sensazione di smarrimento comune tra la popolazione statunitense: quella di sentirsi per la prima volta vulnerabili. Una sensazione estranea alla visione del mondo degli Usa, che sin dal 1812 (la guerra anglo-americana) non veniva attaccata sul proprio territorio nazionale. Sensazione che favorì la risposta militare per riaffermare il potere: la guerra contro l’Afghanistan e contro il terrorismo di matrice islamica».

– Una sensazione di paura da parte degli onnipotenti?

«Proprio così. Quella sensazione di unità che lei evocava nella prima domanda, non fu una vera unità condivisa ma un richiamo all’ordine. Bush jr disse: “Ci odiano perché siamo liberi”, dichiarando di fatto una sorta di superiorità statunitense rispetto al mondo circostante, ed evitando di porsi domande sul ruolo e sull’azione internazionale del suo paese».

– La società civile e politica non era completamente schierata per una risposta militare?

«Dopo i tragici fatti, chi osava mettere in discussione le affermazioni e le decisioni di Bush era sospettato di “antiamericanismo”. Furono compiute anche violenze di stampo razzista contro chiunque somigliasse, anche lontanamente, a un musulmano. E dal momento che anche i musulmani sono cittadini americani, quella ostentata unità era di fatto escludente. Clamorose furono le aggressioni ai danni di Sikh (del Punjab) scambiati per terroristi islamici dai suprematisti bianchi. Le canzoni di Patti Smith e di Bruce Springsteen, i testi dello scrittore, sceneggiatore e drammaturgo Don DeLillo (senza dimenticare il film denuncia di Michael Moore) ponevano accenti problematici, ma la risposta ufficiale non ne tenne alcun conto. Non possiamo dimenticare che nel documento ufficiale “di strategia di politica estera” del Governo degli Stati Uniti, l’11 settembre fu definito come “un’opportunità”, una occasione strategica che fornì le giustificazioni per l’intervento in Afghanistan».

– Lo scenario delle Torri in fiamme fu un duro colpo inferto al cuore degli Usa, della democrazia, si disse allora. Dopo Bush Jr, Obama, poi Trump e ora Biden: in questi vent’anni, malgrado l’alternanza, appare evidente come vi sia sempre stata una tendenza a ricompattarsi, ad avere una visione politica comune sull’11 settembre. È così?

«Sì, unirsi e ricompattarsi, malgrado le differenze interne. Il tentativo di Obama nel suo discorso di insediamento fu straordinario, generoso, quando disse: “Questo è un paese di cristiani e musulmani, di ebrei e di atei”. Fu un gran bel segnale, ma non andò oltre l’enunciazione di principio. Obama non chiuse mai la base di Guantanamo, e la visione inclusiva che egli stesso rappresentava, quella di “un afroamericano alla Casa Bianca” ha generato reazioni radicali estreme, dapprima con il tea party e poi con l’elezione di Donald Trump. Dunque, l’idea di un Paese unito non era altro che un’immagine destinata a ribadire le gerarchie razziali e sociali; gli Usa produssero politiche securitarie e strette alle libertà fondamentali con la nascita del Department of Homeland Security (il Dipartimento di sicurezza nazionale, creato dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001), dando il via a una società della sorveglianza di cui abbiamo visto gli effetti durante l’estante del Black Lives Matter».

– E in Italia?

«L’Italia tende a importare il peggio dagli Usa. Allora fummo “spinti” a intraprendere la deriva dell’intolleranza nei confronti di musulmani, deriva che una certa politica a onore del vero aveva già intrapreso. Colpisce, a tal proposito, che in questi giorni segnati dalla situazione afghana, l’empito di solidarietà – a volte autentico, a volte strumentale e a volte retorico –nei confronti delle donne afghane non si curi del fatto che anche queste donne sono musulmane. Demonizzando e disprezzando l’Islam in quanto tale disprezziamo anche loro».

– Tornando agli Usa, si può dire che l’attentato del 11 settembre 2001 mise in sordina alcune tensioni poi destinate a riesplodere?

«Quando Donald Trump affermava Make America great again (facciamo l’America di nuovo grande), si rifaceva chiaramente a una unità escludente: l’America della segregazione e della discriminazione razziale. Dunque, è evidente che il desiderio è quello di ricompattarsi dentro a un confine interno. Nessun presidente era mai stato così intenzionalmente divisivo prima di Trump».

– Noi qui abbiamo un’idea della “grande provincia”, distante dalla sensibilità delle grandi metropoli: ma è ancora così?

«Ci trae in inganno il modello elettorale americano, quello winner takes all, che prevede il 51% dei voti come “asso prende tutto”. Noi vediamo la cartina degli Usa con Stati rossi e Stati blu, come se non ci fosse nulla di blu in quelli rossi e di rosso in quelli blu. Come se New York, a esempio, fosse tutta democratica, dimenticandoci però che a Staten Island, uno dei cinque boroughs di New York, Terump ha preso il 62% dei voti.. La Georgia, dove i democratici hanno ottenuto i due posti decisivi al Congresso, è “dipinta” nelle cartine elettorali come e fosse tutta democratica, mentre di fatto i repubblicani sono quasi la metà degli elettori. Dunque, la cosiddetta provincia americana è un luogo di conflitti e diversità esattamente come lo sono le metropoli».

– Quale eredità ci ha consegnato l’11 di settembre?

«Da quel tragico evento soggetti diversi hanno tratto insegnamenti diversi. Quello che certamente si è compreso è che non si possono mettere in atto guerre contro il terrore, contro il terrorismo. Emergono, anche oggi più che mai con l’Afghanistan, l’assurdità delle risposte militari e la profonda vulnerabilità del nostro essere al mondo. Un mondo che non può essere difeso propugnando la democrazia ma negandola di fatto con la violenza e mettendo in atto politiche securitarie. Solo la profondità, l’analisi, il rispetto delle differenze e l’aiuto reciproco possono risolvere crisi e i conflitti».

 

Foto di David Z da Pixabay 

 

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